La notizia, apparentemente, è semplice: venerdì 20 ottobre, 24 ore di sciopero in tutti gli stabilimenti del gruppo Acciaierie d’Italia, con manifestazione nazionale a Roma. In realtà, questa iniziativa di lotta – decisa ieri, a Roma, dal Coordinamento nazionale Fim, Fiom, Uilm della ex Ilva – è tutt’altro che semplice. Ciò, innanzitutto, perché si tratterà dell’appuntamento culminante di un percorso le cui prime tappe sono già state piuttosto significative, e che si articolerà da adesso e nei prossimi giorni in un crescendo volto ad allargarne visibilità e impatto e, per certi aspetti, anche ad approfondirne gli effetti. Inoltre, perché stiamo parlando di un’iniziativa sindacale pensata per parlare a diversi interlocutori.
Ma andiamo con ordine. Cominciando col ricordare le due prime tappe del percorso che dovrà portare allo sciopero del 20 ottobre. L’offensiva sindacale relativa all’attuale conduzione di Acciaierie d’Italia è iniziata giovedì 28 settembre, con lo sciopero di 24 ore del grande impianto siderurgico di Taranto; ed è proseguita, lunedì 2 ottobre, con l’analogo sciopero effettuato allo stabilimento di Genova Cornigliano.
Ieri, poi, terza tappa del percorso: la citata riunione, a Roma, del Coordinamento nazionale Fim, Fiom, Uilm del gruppo ex Ilva-Acciaierie D’Italia, con la partecipazione delle Rsu anche di Ilva in Amministrazione Straordinaria e delle ditte d’appalto. Solo che non si è trattato di un normale incontro sindacale, ma di un appuntamento in cui, alla funzione deliberativa tutta interna al mondo sindacale, propria delle riunioni di questi organismi, si è aggiunta la funzione tipica di una manifestazione sindacale rivolta all’esterno. Infatti, il coordinamento si è tenuto all’aperto, in via Molise, la strada che, unendo via Vittorio Veneto con via di San Basilio, costeggia palazzo Piacentini, sede di quello che un tempo si chiamava ministero dell’Industria e ha poi cambiato nome più volte, fino a giungere all’attuale denominazione di Ministero delle Imprese e del Made in Italy.
E’ qui, di fianco a uno degli ingressi del Ministero retto oggi da Adolfo Urso, che i sindacati dei metalmeccanici hanno allestito un palco di fronte a cui si sono riunite alcune decine di delegati provenienti dalle diverse sedi del Gruppo: Taranto, Genova e Novi Ligure, oltre alle Segreterie nazionali di Fim-Cisl, Fiom-Cgil e Uilm-Uil.
Sulle prossime tappe del percorso avviato dai sindacati, torneremo dopo. Soffermiamoci, adesso, sugli interventi dei delegati provenienti dai diversi siti del Gruppo. Interventi da cui è emerso un quadro che può essere definito quanto meno sconcertante, se non drammatico, delle condizioni attuali del gruppo stesso.
“Siamo ai minimi termini”, esordisce un delegato dello stabilimento di Cornigliano. La produzione è al minimo. Il frequente ricorso alla messa dei lavoratori in Cassa integrazione fa decrescere i loro redditi. Una trentina di dimissioni non hanno dato luogo a nessun rimpiazzo. E poi, cosa particolarmente grave, la manutenzione dell’impianto è insufficiente. Il che può generare situazioni di rischio.
Segue un delegato di Novi Ligure, in provincia di Alessandria. “Da 700 dipendenti che eravamo nel 2019, adesso siamo meno di 600.” Infatti, pensionamenti a parte, parecchi lavoratori hanno preferito presentare le proprie dimissioni piuttosto che permanere in uno stato di incertezza sul loro domani.
Prende poi la parola un delegato di Taranto, che confessa di sentirsi un po’ disorientato. Ha saputo che l’Amministratore delegato di Acciaierie d’Italia, Lucia Morselli, una manager che è stata designata a questo incarico dal socio privato ArcelorMittal, ha dichiarato che quello attuale “non è un momento brutto per l’Azienda”. Dopodiché, il nostro delegato, per fare un esempio, spiega che, ormai, all’interno dell’immensa area occupata dallo stabilimento, non ci sono più neanche gli autobus per portare i dipendenti dalle diverse postazioni lavorative agli spogliatoi. Il che, a occhio e croce, non deve essere un bel sintomo. Peggiori gli altri sintomi descritti: reparti fermi e Cassa integrazione in abbondanza.
Tocca poi a un altro tarantino, dipendente di una delle varie ditte che eseguono lavorazioni in appalto. La sua valutazione è questa: “Se non rifanno l’Afo 5 (in gergo siderurgico, l’altoforno n. 5), vuol dire che vogliono chiudere Taranto”.
Segue un secondo delegato di Novi Ligure. Il quale dice: “Siamo a un punto di non ritorno”. E aggiunge che i suoi compagni di lavoro gli chiedono: “Ma è vero che Novi chiude?”.
Insomma, valutazioni lucide ed esplicite sugli aspetti meno confortanti della situazione attuale, preoccupazioni serie sulle prospettive, ma anche l’orgoglio di chi è consapevole di aver lavorato in un’azienda dal valore strategico per il nostro Paese. Orgoglio e consapevolezza espressi, con forza, da un altro delegato di Genova: “La vertenza Ilva non è la vertenza Ilva, è la vertenza dell’industria italiana. Se chiude l’Ilva, l’industria italiana subisce un duro colpo. E ciò proprio in un momento in cui il nostro Paese avrebbe bisogno di più industria e di più innovazione, non di fare passi indietro”.
“In Europa – aggiunge il delegato genovese, citando dati Eurofer – ci sono 24 siti siderurgici a ciclo integrale, di cui 8-9 di ArcelorMittal. Ebbene, 23 di questi siti sono inseriti in percorsi di decarbonizzazione del processo produttivo. Tutti, meno Taranto.”
Conclusione: “Va salvata la siderurgia nazionale. Siamo in ritardo, questo è sicuro. Ma ancora non è troppo tardi”.
Nei loro interventi, i delegati provenienti dai diversi siti produttivi della ex Ilva sono dunque partiti dalle loro esperienze concrete, maturate quotidianamente nei rispettivi luoghi di lavoro. E hanno quindi preso a bersaglio l’Azienda, ovvero quella Acciaierie d’Italia che è ufficialmente nata nell’aprile 2021, realizzando l’accordo pattuito nel dicembre 2020 tra l’indiano-lussemburghese ArcelorMittal, il più grande produttore d’acciaio a livello globale, e Invitalia (62% al socio privato, 38% a quello pubblico).
Il discorso critico è stato però esteso al Governo dagli interventi dei Segretari generali dei sindacati promotori dell’iniziativa, ovvero nei discorsi, tenuti sempre ieri a via Molise, da Roberto Benaglia (Fim-Cisl), Michele De Palma (Fiom-Cgil) e Rocco Palombella (Uilm-Uil). A parer nostro, non sarebbe infatti credibile l’ipotesi che Invitalia, ovvero l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa, una società per azioni partecipata interamente dal Mef (Ministero dell’Economia e delle Finanze), attualmente socia di minoranza di AdI, abbia una sua autonomia strategica rispetto alle volontà politiche del Governo. In altre parole, se Acciaierie d’Italia si presenta oggi come un’impresa industriale i cui comportamenti quotidiani sono tanto diversi dagli scopi annunciati da essere quasi incomprensibili, è difficile credere che ciò derivi solo dai disegni imperscrutabili del socio privato.
A gennaio, è stato ricordato ieri più volte, il Governo ha messo a disposizione dell’impresa 680 milioni di euro, mentre oggi l’Azienda appare quasi priva di risorse. Tanto che, come il Diario del lavoro ha già ricordato in un recente articolo, l’attuale Presidente di AdI, Franco Bernabè, ha insistito, in un’intervista concessa alla Gazzetta del Mezzogiorno, sull’urgente necessità di “mettere a disposizione” dell’Azienda specifiche “risorse”. Sorge quindi, nella mente dei dirigenti sindacali, una serie di legittime domande. Cosa è successo? Cosa sta succedendo? Dove si vuole portare un’azienda che, ancorché grande e nota, appare oggi priva di un progetto comprensibile?
Nel Documento conclusivo, votato ieri all’unanimità al termine del Coordinamento nazionale del Gruppo AdI, è dunque scritto che “continua ad essere inconcepibile ed inaccettabile che, a distanza di dieci anni dallo scoppio della vertenza dell’ex Ilva, la stessa non sia stata ancora risolta”. “Il più grande gruppo siderurgico italiano, da cui dipende l’economia di diversi territori italiani, il destino di oltre 20.000 lavoratori e la fornitura di un prodotto essenziale per l’industria manifatturiera italiana – è ancora scritto nel documento – versa in condizioni critiche e gravi sotto l’aspetto industriale e occupazionale.”
E ancora: “La reale condizione e lo stato di declino del Gruppo ex Ilva è ormai cosa risaputa: la maggior parte degli impianti sono fermi o a marcia ridotta, i luoghi di lavoro sono insicuri, la situazione debitoria è insostenibile, la Cassa integrazione viene utilizzata per la riduzione dei costi e i livelli produttivi e l’ambientalizzazione sono estremamente distanti dagli obiettivi previsti dall’accordo del 2018. Questa è la ‘reale’ fotografia che smentisce la ‘falsa’ narrazione del management di Acciaierie d’Italia emersa – da ultimo – durante lo Steel Commitment” del 28 settembre scorso.
Conclusione: “Fim, Fiom, Uilm ribadiscono che, se si vuole dare un futuro all’ex Ilva e salvare migliaia di posti di lavoro, salvare l’ambiente e continuare a creare ricchezza per i tanti territori interessati, la scelta obbligata è quella di un immediato cambio di Governance e di gestione dell’intero Gruppo e di realizzare il piano industriale ed ambientale”.
Ecco dunque le prossime tappe del percorso definito ieri dal Coordinamento nazionale Fim, Fiom, Uilm di Acciaierie d’Italia.
Primo. I sindacati presenteranno la richiesta di essere ricevuti in audizione dalle Commissioni parlamentari “Attività produttive” di Camera e Senato.
Secondo. In occasione di tali audizioni, Fim, Fiom e Uilm “richiederanno la costituzione di una Commissione d’inchiesta che verifichi eventuali responsabilità sulla gestione dell’Azienda pubblica-privata”.
Terzo. Avviare una “analisi approfondita”, con il coinvolgimento di “esperti”, per “la verifica dei bilanci e dell’uso delle finanze”.
Quarto. Lunedì 16 ottobre “si terranno iniziative presso le Prefetture di tutte le Provincie interessate dai siti produttivi di Acciaierie d’Italia”. Ciò “al fine di incontrare i Prefetti e le Autorità locali competenti per denunciare i gravi problemi di salute e sicurezza presenti nei siti e sollecitare il Governo ad assumere le decisioni indicate dalle Organizzazioni sindacali”.
Quinto. Una “campagna di assemblee” nei luoghi di lavoro volte a preparare la giornata di lotta del 20 ottobre.
Infine, in tale data, sciopero di 24 ore in tutti i siti di Acciaierie d’Italia e “manifestazione nazionale presso Palazzo Chigi, sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri”.
Azienda – ovvero, principalmente, ArcelorMittal – e Governo sono avvertiti.
@Fernando_Liuzzi