Forse è meglio che cada. Anzi, senza forse. Parafrasando indegnamente un famosa frase pronunciata nel 1981 da Enrico Berlinguer riferita all’Unione sovietica, anzi alla rivoluzione di ottobre, possiamo dire che si è esaurita la spinta propulsiva del governo Draghi. L’allora segretario del Pci disse quelle parole dopo che in Polonia era stata introdotta la legge marziale dal governo comunista e dittatoriale del generale Jaruzelski, che così eliminò in un colpo solo la stagione delle riforme portata avanti dal leader di Solidarnosc Lech Walesa. Erano passati 13 anni dall’invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati russi di Leonid Breznev e 25 da quella dell’Ungheria voluta da Kruscev, ma ne sarebbero serviti altri otto prima che crollasse il Muro di Berlino e con esso il mondo comunista.
Ovviamente, non stiamo dicendo che il nostro premier sia uguale ai vecchi leader dell’Urss, né tantomeno che il governo italiano sia assimilabile a quelli sovietici, il paragone è un semplice artifizio retorico per dire che la maggioranza di cosiddetta unità nazionale nata un anno e mezzo fa non riesce più a stare in piedi, ammesso che ci sia mai riuscita. Ormai siamo arrivati allo scontro esplicito tra Giuseppe Conte e il premier, con il primo che accusa il secondo di aver cercato di farlo fuori attraverso il fondatore del Movimento Beppe Grillo. Per quanto tempo ancora potranno andare avanti insieme questi due leader politici?
Se poi passiamo al secondo fronte aperto, la situazione non è certo migliore. La durissima opposizione di Matteo Salvini alla legge sullo ius scholae, ossia al diritto dei ragazzi che studiano in Italia di ottenere la cittadinanza del nostro paese, va al di là del merito della questione, che pure è una questione di civiltà. Ma investe direttamente i rapporti tra la Lega di Salvini e il Pd di Letta, che è appunto il promotore dei questa legge. E’ evidente che dopo molti mesi di polemiche tenute sotto il livello di guardia, lo scontro è ormai esploso al massimo livello. Ed è altrettanto evidente che più si avvicinano le elezioni politiche, più lo scontro sarà aspro.
Per non parlare della guerra in Ucraina, che vede Draghi e Letta da una parte della barricata, ossia quella della Nato, degli Usa, di Zelenski, e quindi del continuo rifornimento di armi a Kiev, e Conte e Salvini dall’altra parte, cioè quella dello stop alle armi e dell’apertura di una trattativa con Putin. Lasciamo perdere le ragioni e i torti di entrambe le parti, lasciamo perdere anche la strumentalità elettorale che fa parte del gioco (vedi il “pacifismo” del leader leghista), vediamo invece quanto anche la guerra – giustamente – sia un altro elemento che sta squassando la maggioranza di governo.
Se fosse vero tutto questo, a cosa servirebbe trascinare la legislatura fino alla sua scadenza naturale, cioè la primavera del prossimo anno? Qualcuno dirà che si deve completare il Pnrr, che c’è la legge finanziaria, che non si può aprire una crisi con la guerra in corso… Tuttavia, giunti a questo punto non è affatto detto che l’accanimento terapeutico per tenere in vita una coalizione ormai moribonda sia utile al Paese. Tanto vale allora chiudere la parentesi del governo tecnico, lasciare che Draghi resti in carica per gli affari correnti – come peraltro prevede la Costituzione – e sciogliere le Camere per votare a ottobre. Nel frattempo si potrebbe varare forse la legge di bilancio e completare quel che ancora manca del Piano per ottenere tutti i fondi europei a disposizione. Altrimenti ci penserà il governo successivo.
Il quale potrebbe essere finalmente un governo politico, ovvero composto dai partiti che avranno vinto le elezioni, ammesso e nient’affatto concesso che qualcuno di loro riuscisse a raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. In vantaggio parte il centrodestra, almeno a guardare tutti i sondaggi, anche se non sembra goda di ottima salute viste le profonde divisioni che lo attraversano. Meloni e Salvini ormai si odiano cordialmente, mentre Berlusconi lavora nell’ombra, non si sa per ottenere cosa, si potrebbe pensare che il leader di Forza Italia stia giocando per non vincere: la prospettiva di arrivare terzo e di dover cedere quindi lo scettro del comando a Giorgia Meloni non gli piace per niente. Meglio non vincere, allora, e rimettersi in gioco attraverso un altro governo tecnico.
Dall’altra parte, la situazione non è certo migliore. Il cosiddetto campo largo agognato da Letta si restringe ogni giorno di più, la crisi dei Cinquestelle, la scissione di Di Maio, la gestazione seppur faticosa di una coalizione centrista, sono tutti ostacoli per la costruzione di questo nuovo Ulivo che, qualora nascesse, sarebbe più che altro una nuova Unione. Ovvero quell’alleanza messa in piedi nel 2006 da Prodi, composta da una decina di forze politiche, da Mastella a Turigliatto, e che era talmente eterogena da non potere durare più di due anni. Infatti così è andata.
E allora, tanto varrebbe che tutti rompessero gli indugi e si mettessero alla prova degli elettori: saranno loro a decidere chi e con chi dovrà governare nei prossimi anni. E se decideranno che nessuno di loro è in grado di farlo, ecco che diventerà obbligatorio rifugiarsi ancora una volta sotto l’ala protettrice del Capo dello Stato. Il quale, possiamo scommetterci, richiamerà Mario Draghi all’ordine.
Riccardo Barenghi