Leggo con grande attenzione (e condividendone molti passaggi) i ragionamenti di Giuseppe Casadio e poi le integrazioni di Aldo Amoretti. Se il primo centra pienamente l’obiettivo di descrivere un processo lungo che disvela quanta approssimazione e quanta “propaganda” si cela oggi nel confronto sul mercato del lavoro, anche e soprattutto versus una Cgil che ha sempre avuto proposte concrete, approcci gradualisti e visioni di sistema, il secondo – se non ho capito male – evidenzia lo scarto tra una stagione e una proposta generale (quella narrata da Casadio, protagonista di quegli anni) e una pratica sbagliata, “rinunciataria” e/o velleitaria, del tipo “piccoli burocrati crescono” (Nidil). Una tesi che potrei fare mia, senza lesinare critiche però alla stessa Filcams e alla sua strategia di dumping contrattuale che proprio all’epoca si sviluppava (ma andremmo fuori tema), e forte del fatto che, pur con limiti e contraddizioni, potrei ricordare come sui call center fu la categoria Slc-Cgil, insieme alla confederazione, non tanto a stabilizzare qualche decina di migliaia di precari (non fu facile, ma il contesto normativo ci aiutava molto, leggi circolari Damiano) ma a gestirne l’inserimento in cicli produttivi complessi e dentro organizzazioni avanzate, trasferendo flessibilità dal lavoro al modello di impresa e ricostruendo, soprattutto, un ciclo intorno ai grandi committenti delle tlc (all’epoca ero Segretario Nazionale di quella categoria)…
Il punto e’, però, che il mio amico Aldo per sostenere la sua tesi, mette insieme cose che insieme non stanno: la scarsa capacità delle categorie e della contrattazione aziendale e territoriale nel governare processi e nel cercare di portare ad unita’ (o ridurne la distanza tra) le diverse tipologie contrattuali e professionali all’interno di un processo produttivo (anche dove la contrattazione si è esercitata purtroppo; potrei produrre decine di accordi di secondo livello, anche in Filcams o sottoscritti dalla Fiom dove picchi organizzativi, scorrimenti turni, disagi legati a carichi complessi sono stati bellamente scaricati su interinali o cooperative in appalto che disarticolavano il ciclo) e il riposizionamento delle proposte confederali contro il lavoro nero. Dimenticando che, mentre sul mercato del lavoro si era dentro un sistema che con la legge 30 e decreti attuativi ci sfidava su un terreno di governo dei processi, dentro l’azienda (con l’amico Claudio Treves scrivemmo dei veri e propri manuali su come provare a gestire le novità sia a livello di Ccnl che territoriale che di Rsu), sul tema della lotta al lavoro nero ci trovavamo invece in una fase “discendente”, con il definitivo esaurimento della programmazione territoriale, dei contratti d’area, dei patti territoriali e relative risorse e procedure. Quello il contesto e gli strumenti dentro cui si erano sviluppati i contratti di riallineamento (e non senza contraddizioni, perché a fronte di contratti di riallineamento veri, legati al tentativo di qualificazione produttiva come fu il tessile pugliese, al di la’ del tasso poi di sopravvivenza, vi furono contratti di riallineamento disposti in funzione non di emergere, ma di attrarre risorse e mascherare quello che dietro molti patti territoriali vi era già: una competizione, avvallata dal sindacato, sul costo del lavoro e sotto i minimi contrattuali). Quindi stava venendo meno una funzione degli ispettorati e delle direzioni provinciali del lavoro (da li a poco uno degli effetti del clima “legge 30 e libro bianco Maroni”, sarà il dlgs. 124/04, spesso sottovalutato nella sua portata di snaturamento delle funzioni di controllo e repressione dei reati lavoristici e previdenziali e che tanti danni continua a fare…). Funzione che per decenni era stata uno strumento sussidiario alla concreta azione sindacale sul territorio (in quante aziende siamo entrati a seguito di ispezioni?). Quindi la scelta della Cgil fu quella di qualificare innanzi tutto come stare negli organismi che all’epoca frequentavamo (inutili) come i Cles, per provare però ad agire, in quella sede e soprattutto in sede di confronti con le Regioni, strumentazioni nuove e fare leva su quella che nel tempo si sarebbe affermata come “contrattazione sociale”, cioè una funzione di rappresentanza generale di interessi su scala però territoriale. E furono individuati/rilanciati in quella sede ricordata da Aldo (e riportata nel libro citato, da me scritto all’epoca) strumenti come gli indici di congruità oltre l’edilizia e la semplice trasposizione delle tabelle ettaro-colturali, le liste di prenotazione in agricoltura, le clausole sociali per la filiera, legare riconoscimento di qualità nelle strutture alberghiere (le stelle) ad una certificazione di correttezza e congruità contrattuale, ecc.: argomenti squisitamente contrattuali se agiti con coerenza dalle stesse categorie e che comunque sono stati poi al centro di tutta la produzione legislativa (quella poca che c’è stata) a livello regionale. E sono quelle proposte e norme (dove attuate, penso da ultimo in Basilicata) che qualche piccolo risultato di emersione continuano a dare. Questo ovviamente non per nascondere limiti, storture e forse un po’ di eccessiva semplificazione in quelle proposte e in quei percorsi, ma per evidenziare quanto però i due contesti e i due processi siano in realtà contemporanei per “ufficializzazione” esterna, ma diversi perché legati il primo ad un processo “espansivo” (riforma del mercato del lavoro e moltiplicazione tipologie), il secondo a dover gestire la chiusura di un ciclo (quello della programmazione negoziata, dei patti territoriali, ecc.).
Del resto più che sul lavoro nero, la vera sfida (allora come oggi) era aggredire il cosiddetto lavoro grigio, a cui spesso le aziende hanno sovrapposto poi contratti precari, in un’ottica di continuo dumping contro il lavoro di qualità. Ma questa è (forse) un’altra storia.
Alessandro Genovesi, segretario generale Cgil Basilicata