C’è qualcosa di vagamente surreale nella polemica infuocata che ha accolto la notizia del prestito chiesto da Fca. Ricapitolando in breve: il gruppo che fa capo alla famiglia Agnelli, ricorrendo alle norme previste dal decreto liquidità, ha chiesto a Banca Intesa un prestito da 6,3 miliardi di euro, utilizzando la garanzia pubblica offerta da Sace, società collegata a Cassa depositi e prestiti. La somma è necessaria, secondo Fca, a retribuire direttamente i propri fornitori, vale a dire altre 5.500 imprese del settore automotive, ma con le spalle un po’ meno larghe di Fca e, dunque, affamate di denaro liquido. Il prestito verrebbe ripagato in tre anni, interessi compresi, e compresi anche gli interessi con quali si “paga” la garanzia pubblica, che non è ovviamente gratuita. Nelle casse di Sace dovrebbero entrare quindi alcune centinaia di milioni di euro, in percentuale che oscilla, a seconda della durata dei prestiti, da circa 200 fino a un massimo di 500 milioni (se durasse tutti i sei anni previsti dal decreto Liquidità).
La decisione di ricorrere al prestito è stata formalizzata la scorsa settimana, e annunciata in un incontro con i sindacati del settore, ai quali è stato anticipato il progetto, e nel contempo, è stato confermato il piano di investimenti già previsto, nonché la fusione con Psa che dovrebbe realizzarsi nel primo trimestre del prossimo anno. I sindacati, a loro volta, hanno preso atto. Fine.
O meglio: si sarebbe potuto dire “fine” se non si stesse parlando di Fca, gruppo che per vari motivi suscita sempre, da decenni, particolari sensibilità e accese idiosincrasie nella politica nazionale. E dunque, appena la notizia si è diffusa (con un comunicato ufficiale di Fca, nonché con uno, gemello, dei sindacati) apriti cielo. Dal mondo politico hanno iniziato a piovere strali sul gruppo, accusato nell’ordine di: avere sede in un paradiso fiscale e non pagare le tasse in Italia; pretendere soldi dei contribuenti; non mantenere gli impegni.
Tre accuse che sono sia vere sia false.
Partiamo dal paradiso fiscale. Si, il gruppo Fca ha trasferito la sede legale in Olanda e quella fiscale a Londra. Chiunque si occupi di queste faccende sa bene che sia l’Olanda che la City sono, effettivamente, molto vicine a funzionare come un paradiso fiscale, nel senso che offrono condizioni di notevole vantaggio, fiscale e societario, alle imprese che vi si domiciliano. E tuttavia, né l’Olanda né Londra sono mai comparse nelle liste “nere” o “grigie” che le varie autorità mondiali – Ocse, Ue, Fmi, ecc. – stilano annualmente per definire quali paesi sono definibili come paradisi fiscali. Ed è un errore, certo: perché è noto e stranoto che buona parte dei paesi europei svolge questa azione di dumping fiscale nei confronti degli altri. Ma è un tema che nessuno ha mai avuto davvero il coraggio di affrontare a livello politico internazionale, come sarebbe necessario (ci sarebbe da dire molto anche sugli Usa, a questo proposito); ed è dunque abbastanza bizzarro che lo si riscopra oggi solo per Fca.
Peraltro, moltissime aziende italiane hanno da tempo immemorabile sede in Olanda (una per tutti: la Ferrero) non tanto per via del fisco quanto per il diritto societario, più agevole e lineare rispetto a quello italiano. Tanto che nella conferenza stampa di uno dei tanti Dpcm lo stesso Giuseppe Conte ha annunciato una prossima revisione sia del diritto societario che del fisco, in modo da evitare che tante imprese nazionali siano “costrette” a rivolgersi altrove. Inoltre, piccolo dettaglio, il trasloco di Fca è datato 2014, ma non ci fu particolare strepito, all’epoca. Né i vari governi che da allora si sono avvicendati – governo Renzi, governo Gentiloni, governo giallo verde, governo giallo rosso – hanno mai avuto da ridire sulla faccenda. Ora, invece, è diventata questione di vita o di morte, con non pochi esponenti del mondo politico, a partire dal Pd, che chiedono, come condizione per concedere la garanzia pubblica, che Fca riporti le sedi in patria. Come se fosse semplice, come se bastasse fare la valigia e un biglietto Amsterdam-Torino. Come se avesse senso. Infine, va detto anche che il prestito è stato chiesto da Fca Italia, che risiede e fattura e paga le tasse in Italia: 1,3 miliardi lo scorso anno, 6 milioni solo di Irap.
Seconda accusa, prendere soldi pubblici, cioè dei contribuenti. E’ stata a lungo vera, soprattutto in passato. Era vera quando l’Iri sostanzialmente regalava la sua Alfa Romeo alla Fiat (si chiamava ancora così), ed era vera nei frequentissimi incentivi per la rottamazione che la Fiat regolamente fingeva di non volere, anzi sdegnava, ma poi regolarmente otteneva, da governi di ogni colore. Grazie ai quali incentivi nelle casse dello stato entravano un po’ meno quattrini, e nelle case degli italiani un po’ più vetture (spesso estere e non Fiat, ma vabbé).
Ed erano soldi pubblici, decisamente, anche gli 8 miliardi di dollari che il governo degli Stati Uniti, nel 2009, con Barack Obama fresco di elezione alla Casa Bianca, prestò a Sergio Marchionne per realizzare la fusione con Chrysler. Prestito tutto pubblico, restituito a tempo di record, in soli due anni invece degli otto previsti. Risultato: Chrysler salvata dal fallimento, Fiat pure, nascita di un nuovo gruppo multinazionale, ribattezzato Fca. Un successo.
Questa volta invece i soldi – i 6,3 miliardi di euro- non sono pubblici, sono di una banca privata, tra l’altro una delle migliori banche europee, tradizionalmente vicina al gruppo, questo si. Il prestito, come già detto, è finalizzato a fornire liquidità immediata ai fornitori, all’indotto del sistema auto, settore che vale il 7 per cento del Pil, con 160 mila addetti, e che ha risentito brutalmente del blocco dovuto alla pandemia. Per capirsi, tra marzo e aprile le immatricolazioni hanno subito un crollo del 90%. Il prestito è stato richiesto in base al decreto che riguarda tutte le imprese con oltre 5 miliardi di fatturato, concedendolo in misura di un quarto rispetto ai ricavi 2019. Cifra che per Fca è pari a 27 mld, da cui i 6,3 mld richiesti. Il tasso del prestito sarà certamente agevolato, anche se ancora non si sa quanto; la garanzia Sace serve, appunto, a garantire che nel caso Fca non restituisca il prestitoaa ci penserà a coprirlo lo stato italiano. Ma nessuno, onestamente, pensa o crede che questo possa mai avvenire. La garanzia si paga, lo abbiamo gia detto. Quindi, non solo non escono soldi pubblici, ma un po’ perfino ne entrano.
E a proposito di soldi pubblici, forse vale la pena di ricordare che nel recente decreto Rilancio, dove ci sono aiuti e aiutini per tutti, nelle svariate centinaia di pagine e commi che lo compongono la parola “auto” non è mai citata. Non è stata stanziata alcuna somma a sostegno del settore. O meglio: ci sarebbero 100 milioni aggiuntivi ai 70 preesistenti dell’ecobonus, per incentivare l’auto elettrica e simili, ma è davvero nulla per l’automotive oggi in ginocchio, che vale (valeva?) una fetta notevole di Pil e che, con 75 miliardi di tasse versate tra Iva, bollo e accise carburanti, risulta anche uno dei primi contribuenti per le casse dello stato. E tocca ricordare, anche, che per il bonus biciclette (500 euro a fondo perduto per chi acquista bici o monopattini o simili, ma NON auto, e nemmeno abbonamenti ai vari car sharing) lo stesso governo ha stanziato invece 130 milioni. Non si sa quanto valga in termini di Pil il settore bici e affini, ma a occhio non sembra paragonabile all’automotive.
Terza accusa, Fca non mantiene gli impegni. Vero, perché i vari piani strategici presentati via via negli anni, a partire dal Fabbrica Italia in epoca Sergio Marchionne, non sono quasi mai arrivati a compimento, costretti di volta in volta ad essere rettificati, corretti, aggiornati, ridimensionati. Deceduto Marchionne, la guida è passata nelle mani di John Elkann, che ha nominato nuovi amministratori; meno folgoranti di Marchionne, forse, ma che tuttavia sono riusciti in quello che a Super Sergio non era mai riuscito: trovare un partner per Fca. Quella alleanza che per Marchionne è sempre stata insieme un sogno e una spina nel cuore, spesso intravista, talvolta preannunciata, e sempre sfumata, adesso è realtà, ed è alle porte: nella primavera del 2021 Fca andrà sposa alla francese Peugeot, creando il quarto gruppo auto mondiale. Quindi, ecco, se proprio si vuole dire che Fca non mantiene gli impegni, bisognerebbe ricordare che questo, forse il più importante, l’ha certamente mantenuto.
Ci sarebbero poi altre questioni da sviluppare. Per esempio, quella dei dividendi. Il decreto Liquidità richiede, giustamente, che le aziende che ne usufruiscono non distribuiscano per l’anno in corso dividendi. Fca ha infatti già deciso, congiuntamente con Psa, di non distribuire quest’anno alcun dividendo ordinario. Ma ha riconfermato, giusto mercoledì scorso, nel corso dell’assemblea annuale della holding Exor, il dividendo straordinario da 5 miliardi legato alla fusione con Peugeot. E’ già messo nero su bianco, ha avvertito Elkann, e non si cambia, essendo appunto legato all’operazione Psa.
Ultima questione, infine, quella dell’ingresso del capitale pubblico in Fca. Richiesta arrivata da diversi esponenti politici della sinistra, e nei giorni scorsi anche dal segretario della Cgil Maurizio Landini, il quale ha osservato che in Psa è presente anche lo stato francese, quindi perché lo stato italiano non potrebbe entrare in Fca, come già siede nei Cda di altre grandi ed efficienti aziende come Eni, Poste, Finmeccanica, ecc? Idea non nuova, quella della “nazionalizzazione” di Fiat: solo dieci anni fa era Giulio Tremonti, all’epoca ministro dell’Economia del Governo Berlusconi, a vagheggiarla come soluzione alle difficoltà del gruppo causate dalla crisi finanziaria mondiale. Tuttavia, Marchionne preferì, diciamo così, farsi “salvare” da Obama. Come dargli torto?
Nunzia Penelope