L’aspra dialettica sindacale e politica che si è “accesa” sul “caso Fiat” è alimentata da una ricostruzione “artificiale”, della materia del contendere, funzionale ad un utilizzo del contrasto in funzione di obiettivi collocabili su piani diversi (le dinamiche generali delle relazioni industriali, i rapporti tra le Confederazioni e di quelle con la Confindustria, la riaggregazione della sinistra “alternativa” ed il suo riproporsi come asse centrale di un bipolarismo della contrapposizione).
Al di là della rilevanza mediatica della questione – e proprio per questo della sua forte significatività e del forte impatto sull’opinione pubblica – in realtà la questione è tutta incentrata sul bilanciamento tra i modelli organizzativi aziendali, imposti dal nuovo contesto dell’economia mondiale, e lo statuto protettivo riconosciuto ai lavoratori nell’impresa.
Si tratta, in altre parole, di discutere “come” – e non tanto “in che misura” – adeguare uno statuto produttivo immaginato per un certo tipo di organizzazione aziendale ad un mutato contesto diversificato per singoli settori e (spesso) per singole aziende, se non per singoli stabilimenti produttivi.
Ebbene, di tale dialettica appare proprio emblematica la vicenda negoziale della Fiat che si è concentrata, in tutti i suoi passaggi (sia quelli relativi al rapporto con Confindustria e con l’associazione di categoria, sia quelli riferiti al contratto nazionale, sia ancora quelli di merito sfociati negli accordi per Mirafiori e Pomigliano), non sull’arretramento dello statuto protettivo del lavoro subordinato (quale disegnato dalla legge e dall’autonomia collettiva), bensì (ed assai più riduttivamente) sulla compatibilizzazione di tale statuto produttivo con due distinti modelli organizzativi, l’uno modulabile di tempo in tempo (ma con rapidità) per Mirafiori, l’altro idoneo a realizzare un sostanziale ciclo continuo, per Pomigliano.
Per Pomigliano, infatti, l’esigenza sottostante è quella di organizzare un ciclo continuo di produzione – i “famosi” diciotto turni – nella considerazione, promossa dall’azienda, di poter garantire l’automatica allocazione sul mercato di una certa quantità di prodotto.
Nella fabbrica campana, quindi, la Fiat sa quanto deve produrre; conseguentemente ha la necessità di prevedere (e garantirsi) l’utilizzo del fattore lavoro. Il problema, in altre parole, è in questo caso il numero di lavoratori che vengono impiegati nella produzione e la prevedibilità del loro utilizzo.
Sennonché a Pomigliano proprio l’utilizzabilità dei lavoratori non era prevedibile in ragione di un tasso di assenteismo variabile (e superiore alla media nazionale). Se si assume una produzione a ciclo continuo ed una pianta organica corrispondente, infatti, sarebbe possibile tollerare anche un certo assenteismo purché costante, in quanto attraverso tale dato è possibile stimare la dimensione della eventuale squadra rimpiazzi. Laddove, invece, l’assenteismo è soggetto a picchi e cadute, l’organizzazione della produzione secondo un ciclo continuo rende necessaria la presenza di una squadra rimpiazzi parametrata necessariamente sui picchi; con conseguente “perdita di lavoro” quando l’assenteismo si attesta a livelli “minimi”.
Analoga, seppur rovesciata, è la situazione di Mirafiori.
Qui l’azienda assume di non poter prevedere la quantità di prodotto da poter collocare sul mercato. Né la Fiat sceglie – ma comunque non potrebbe farlo – di produrre secondo una logica push o, per dirla in italiano, “facendo magazzino”.
La soluzione organizzativa, pertanto, è necessariamente quella del just in time, nella quale l’assenza di “scorte” deve riguardare sia i beni materiali – i semilavorati e gli stessi prodotti finiti – che, soprattutto, i lavoratori impiegati, rectius la quantità di lavoro richiesta agli stessi. Detto altrimenti, la richiesta aziendale è quella di un modulo organizzativo capace di allargarsi o restringersi in ragione del numero di vetture vendute (e quindi allocabili sul mercato).
Qui, dunque, il problema non è quello della garanzia di un certo livello di produzione, quanto piuttosto quello dell’utilizzo più incisivo e soddisfacente possibile della forza lavoro a disposizione, in modo da far fronte all’auspicabile “picco di mercato”.
Il tema che emerge quindi è quello dell’organizzazione del lavoro o meglio della riarticolazione dello statuto protettivo dei lavoratori in coerenza con le esigenze organizzative dell’impresa. Non a caso, del resto, gli accordi di Pomigliano e Mirafiori si preoccupano in termini chiari dell’organizzazione dei turni e quindi della operatività aziendale; mentre l’unico aspetto che interessa il costo del lavoro (ma non la retribuzione dei lavoratori) è il contenimento della dimensione della squadra rimpiazzi.
Le novità, la frattura con il passato, di contro, si riduce a modesti interventi deflattivi dell’assenteismo ed a contenuti recuperi in ordine alla dimensione e (soprattutto) all’azionabilità della leva dello straordinario; né viene investito concretamente il diritto di sciopero, quanto piuttosto la parte obbligatoria del contratto collettivo, e quindi la coerenza dei comportamenti sindacali tra conflitto ed accordi sottoscritti (peraltro pre-verificabile con i previsti percorsi di “raffreddamento”).
Le considerazioni sin qui svolte portano quindi a riaffermare che il problema non è quello della riduzione delle tutele, ma quello della loro adattabilità ad un contesto organizzativo nel quale trovi posto la massima valorizzazione della collaborazione tra capitale e lavoro (che ne esalti produttività, redditività e capacità occupazionale), realizzabile attraverso il mantenimento di due livelli di contrattazione e di un meccanismo di derogabilità costruito secondo una tecnica ragionevole che consenta di tener conto (perfino) delle esigenze delle singole unità produttive sul modello dell’intesa integrativa del contratto nazionale Metalmeccanici del 29 settembre scorso.
Roberto Pessi, Professore ordinario di Diritto del Lavoro, Università Luiss “G. Carli” di Roma