Intervistato nel 1990 da Enzo Biagi, alla domanda “come vorrebbe essere ricordato tra 100 anni”, Raul Gardini rispose: “dottor Biagi, tra 100 anni nessuno mi ricorderà più”. C’è da dire che, intanto, ne sono passati trenta, e ancora di lui ci si ricorda eccome. Il trentennale della morte (23 luglio1993) ha risvegliato un interesse straordinario per quella vicenda piuttosto oscura che fu il cuore e il culmine di Tangentopoli. Gardini morì suicida, uno dei tanti suicidi eccellenti dell’epoca, e per di più nel giorno in cui si celebrava il funerale di Gabriele Cagliari, il deuteragonista del dramma, presidente dell’Eni, a sua volta suicida nel carcere di San Vittore. Dove, si dice, Gardini avrebbe dovuto seguirlo a breve, imputato per le tangenti dell’Enimont. Di qui la decisione di uccidersi a sua volta. Tre decenni non sono bastati a chiarire del tutto la vicenda, e chissà se si chiarirà mai; in compenso questo anniversario ha prodotto una notevole quantità di libri sull’imprenditore ravennate, per non dire di una non particolarmente riuscita serie tv con Fabrizio Bentivoglio nei panni del protagonista.
In realtà l’unica operazione editoriale con un senso è quella pensata da Elisabetta Sgarbi, editrice della Nave di Teseo assieme a Baldini + Castoldi, che riporta in libreria “A modo mio”, la lunga intervista firmata da Cesare Peruzzi a Gardini medesimo, uscita nella prima edizione nel 1991, quando il cosiddetto Pirata aveva ceduto sia l’Enimont sia, costretto dalla famiglia Ferruzzi, tutte le cariche nel gruppo. Un Gardini, dunque, in discesa, indebolito, e chiamato da Peruzzi a spiegare molte cose: scelte, non scelte, errori, omissioni. E che risponde, come da titolo del libro, “a modo suo”.
Peruzzi è un giornalista del Sole 24 Ore che in precedenza, dall’85 all’87, era stato primo capo ufficio stampa di Gardini. In genere si diffida delle interviste condotte da persone troppo vicine all’intervistato, ma questa poteva essere una obiezione valida trent’anni fa. Oggi, al contrario, risulta utilissimo rileggere la storia di allora con le parole esatte del protagonista, riscoprire il suo punto di vista, e anche la sua personalità: per metà arrogante, ma per un ‘altra metà ingenua, come Gardini stesso a un certo punto si definisce. Mentre cerca di spiegare a Peruzzi perché, sostanzialmente, cadde con tutte le scarpe, per dirla in breve, nelle mille trappole tesegli dalla politica dell’epoca, infatti afferma: “tutti abbiamo il dovere di essere ingenui”, ma anche “di diventare furiosi quando la nostra ingenuità viene tradita”. E aggiunge, riferendosi alle intromissioni dei partiti nell’Enimont: “non posso accettare una azienda con una gestione parlamentare: come lo spiego alla Borsa di New York, come faccio a far approvare un budget? Parlo alle Camere riunite?”
Ma al di la della vicenda assai nota, e cioè la tentata e fallita conquista della chimica pubblica per dar vita a un colosso mondiale della chimica privata, sono altri i dettagli interessanti che tornano alla luce rileggendo l’intervista. In particolare, emerge la capacità di Gardini di vedere con chiarezza, già trent’anni fa, tutti i temi sui quali oggi ci si arrovella. In primo luogo, l’esigenza di cambiare il modello energetico mondiale, non essendo già allora più sopportabile per l’ambiente – così avvisava – l’impatto delle fonti non rinnovabili: “l’umanita’ deve dedicarsi alla ricerca di fonti alternative”. Di qui il tentativo di lanciare prodotti energetici ricavati dall’agricoltura, a partire dalle biomasse: operazione stoppata, racconta Gardini, sia dall’Eni che dalle stesse organizzazioni del mondo agricolo, Confagricoltura in testa. E ancora, emerge lo studio delle proteine vegetali per innovare l’alimentazione, importando dagli Usa nuovi sistemi di analisi e valutazione delle proprietà nutritive della farina di soja e realizzando a Ravenna un laboratorio di analisi all’avanguardia: “c’è del futuro in questo piccolo mondo antico che attende di essere rinnovato profondamente”, diceva Gardini dell’agricoltura. Per non dire dell’intuizione sulle plastiche innovative e ambientalmente compatibili, da cui nacque la prima biodegradabile, il Mater Bi, frutto dei laboratori della Novamont, una delle perle del gruppo Ferruzzi dopo l’acquisizione di Montedison.
Ma sono solo. Colpisce riscoprire, oggi, la visione fortemente europeista dell’imprenditore, assieme alla convinzione di come fosse necessario – non solo per un’impresa che volesse essere davvero grande, ma per l’Italia stessa – saper valutare il mondo con un’ottica più ampia dei propri confini: “l’Italia è geograficamente una periferia, siamo lontani 1500 km dalla capitale, che è Bruxelles”, scandiva, “devi essere nel cuore dell’Europa, se sei convinto che l’Europa sia una realtà”. Invitando poi a ragionare “non solo in maniera economica, ma geopolitica, perché la carta del mondo sta cambiando”, e vantando quindi la forza innovativa del gruppo Ferruzzi: “noi portavamo una ventata di novità, portavamo il vento del mercato mondiale”. E ancora, la lungimiranza rispetto ai rischi insiti in quella che già allora Gardini definiva l’economia di carta: “un gioco che ha fatto arricchire molti in determinate fasi storiche, ma poi ha inesorabilmente fatto fallire tutti coloro che vi si erano affidati”. Come abbiamo visto nuovamente accadere un ventennio più tardi, con la crisi mondiale causata dai subprimes Usa.
Colpisce anche, trent’anni dopo, rileggere parole che all’epoca sembravano un po’ buttate li a caso, ma che invece sembrano già prefigurare i grandi cambiamenti epocali delle migrazioni che oggi mettono in allarme l’Occidente: “quelli che hanno molto spingono di meno, ma quelli che vorrebbero avere spingono di più: tutti questi popoli stravolti e sofferenti saranno quelli che cambieranno il mondo”. E ancora, sul tema del lavoro, parlava di studiare in largo anticipo “come si insedieranno e organizzeranno i lavoratori del futuro”, quando le “tecnologie informatiche” daranno vita a “forme di lavoro autonomo” che consentiranno “di entrare nel tessuto sociale con maggiore armonia”: quasi un preavviso di quello che stiamo vivendo oggi con il lavoro a distanza, gli algoritmi, le piattaforme.
Sul piano privato, poi, emergono dettagli curiosi. Quel “salottino marrone”, che sembra uscito da una canzone di Paolo Conte, dove i Ferruzzi si riuniscono per prendere decisioni fondamentali, tra cui quella di estromettere Gardini da ogni incarico dopo il fallimento di Enimont; o la smentita della leggenda in base alla quale il patron Serafino avrebbe pagato con un assegno da cento miliardi l’Eridania: “mio suocero non ha mai staccato assegni – precisa Gardini – non ha mai avuto nemmeno il libretto, ha sempre delegato ad altri il compito di pagare”. Eridania che, per inciso, venne acquistata “con uno scoperto di conto corrente”, da 100 miliardi, appunto, mettendo a garanzia altre aziende del gruppo.
Poi, certo, ci sono i non detti, le cose non chiarite, le risposte evasive, l’autogiustificazione dei tanti, troppi, errori commessi negli anni della sua scalata al cielo. Ma resta che rileggere oggi il libro di Peruzzi, tra l’altro arricchito dai testi di tre discorsi inediti pronunciati da Gardini in occasioni pubbliche che sono altrettanti “manifesti” del suo progetto, lascia un senso di grande amarezza: per quello che poteva essere e non è stato, per le occasioni perdute, sia dal protagonista, sia, soprattutto, dal nostro paese. Vale la pena di ricordare che l’Enimont era stata, all’epoca, non solo la migliore idea di politica industriale messa in campo da molti anni, ma anche l’ultima: dopo, non c’è stato più nulla. E chissà come sarebbe oggi l’Italia se Enimont avesse avuto successo, se non si fosse trasferita nel giro di pochi mesi dalle pagine economiche dei giornali alla cronaca giudiziaria e poi addirittura alla nera, trasformandosi in un noir a base di sangue, morti, tangenti, misteri.
Oggi, ed è forse la cosa che maggiormente colpisce nel rileggere il volume di Peruzzi, nessuna delle grandi imprese citate esiste più. Non solo quelle della galassia Ferruzzi – Montedison, tutte vendute, o svendute, ad altri gruppi esteri, ma anche di quelle diciamo collaterali: le assicurazioni di Fondiaria, l’Eridania, l’Unicem, la Snia, la Comit, la Calcestruzzi, la Gemina, la Sme, l’Olivetti, altrettante star di un mondo che non esiste più. Quanto a Montedison, dopo il crack è stata venduta a pezzi per ripianare i debiti: Himont è andata alla statunitense Lyondell, Ausimont alla Solvay, la Edison, dopo molte peripezie, è diventata francese. E ancora: Tecnimont, ingegneria civile, è stata venduta alla Maire Engineering, i fertilizzanti di Agrimont sono andati alla Norsk Hydro, la Farmitalia-Carlo Erba, gioiello della ricerca farmacologica, è stata suddivisa tra il colosso Pfizer e la Fidia farmaceutica. Non è facile calcolare quanto varrebbero oggi quei 15 mila miliardi di fatturato che avrebbe avuto l’’Enimont, quei suoi 50 mila dipendenti, e soprattutto quell’enorme patrimonio di ricerca, di innovazione, di tecnologia che conteneva. Di certo aveva una solida base di partenza per crescere ancora molto. Ma quanto, in quale direzione, non lo sapremo mai: la storia non si fa con i “se”, e nemmeno la politica industriale. Per questo, rileggere oggi “A modo mio”, è un importante tuffo nel passato che consente di capire meglio, a distanza di decenni, tante cose; ma è un tuffo che fa davvero male.
Nunzia Penelope
Titolo: A modo mio. Trent’anni dopo
Autore: a cura di Cesare Peruzzi
Editore: Baldini+Castoldi – La nave di Teseo
Anno di pubblicazione: giugno 2023
Pagine: 224 pp.
ISBN: 9791254945476
Prezzo: 19,00 €