La ripresa in Europa, dicono, con tono di settimana in settimana più convinto analisti ed economisti, c’è. Segue una smorfia di insoddisfazione: dopo una recessione così lunga, ci si aspetterebbe un passo più sostenuto e solido. Cosa manca? La domanda, cioè i consumi, cioè i salari. Di buste paga i macroeconomisti non parlavano da anni, adesso non parlano d’altro. Dopo il Fondo monetario e la Bce è arrivata anche l’Ocse, con il suo ultimo Outlook: i consumi delle famiglie sono azzoppati da una crescita dei salari asfittica. In Europa, come in America: mai, negli ultimi 50 anni, una ripresa così lunga e una discesa della disoccupazione così netta si erano tradotte in un rilancio così magro delle buste paga. Gli Stati Uniti – paese assai ricco in statistiche – lo dimostrano con chiarezza. Marzo 1989: disoccupazione ai minimi del ciclo, 5 per cento, crescita dei salari 4,2 per cento. Aprile 2000, disoccupazione 3,8 per cento, salari +3,9 per cento. Ottobre 2006: disoccupazione 4,4 per cento, salari +4 per cento. Invece, maggio 2017: disoccupati 4,3 per cento, salari +2,4 per cento.
Che succede? L’innovazione tecnologica (robot e software) e la globalizzazione contano, ma un meccanismo più semplice e immediato (in parte, ma non necessariamente, messo in moto dai due fenomeni precedenti) è in azione: la qualità del lavoro. La disoccupazione, nel mondo industrializzato rappresentato dall’Ocse, scende, ma, forse, il tradizionale parametro statistico non funziona più. In Italia, ci sono 3 milioni di disoccupati, ma quelli che lavorerebbero volentieri, eppure, nelle ultime 4 settimane non hanno attivamente cercato lavoro (e, dunque, non rientrano statisticamente fra i disoccupati) sono di più, 3,2 milioni. Sommateli, e il tasso effettivo di disoccupazione italiano è un agghiacciante 24 per cento. E’ un esercito industriale di riserva che preme sul mercato del lavoro e sui salari. Combinandosi con quello che, dalla grande crisi del 2008 in poi, si è rivelato il tratto fondamentale del mercato del lavoro in Occidente: l’esplosione del part time, quasi sempre risorsa obbligata per chi, invece, lavorerebbe volentieri a tempo pieno. Il tasso di disoccupazione nel mondo sviluppato è tornato, più o meno, ai livelli di fine anni ’90: intorno al 6,5 per cento. La quota di chi, però, lavora, per forza, part time è salita, negli stessi anni, dal 7 all’8,5 per cento.
Ma non vale per tutti. L’ultimo rapporto Eurofound mostra che, per il 20 per cento di stipendi più corposi, ovvero le qualifiche più alte, il contratto a tempo indeterminato è stato e continua ad essere la norma. Fra il 2011 e il 2013, con la crisi battente in Occidente, l’unico lavoro che si trovava era part time. Tranne che per le qualifiche più alte, dove il part time era marginale e la maggioranza veniva assunta a tempo indeterminato. Sotto questo profilo, la situazione nei paesi sviluppati non è cambiata nei tre anni successivi: il 60 per cento degli assunti nelle qualifiche più alte trova un posto fisso. Non così per gli altri: man mano che lo stipendio si abbassa, si fa più precario il contratto. Per gli stipendi più bassi, le assunzioni a tempo indeterminato sono solo il 40 per cento. Il 35 per cento viene chiamato a lavorare part time e un corposo 25 per cento full time, ma a tempo determinato. Man mano che si sale nella scala retributiva il numero degli assunti a tempo indeterminato sale, ma non oltre il 50-55 per cento. Gli altri sono part time o con contratti temporanei. Pronti a contrattare al ribasso per avere uno stipendio sicuro. Se gli imprenditori vogliono una ripresa, devono fare la scommessa coraggiosa di rovesciare questa situazione.