Dopo l’unica scivolata della storia, a Vodafone hanno aggiustato il tiro e modificato alcuni processi interni. Per la prima volta hanno aperto un forum dove i clienti, in anteprima, possono testare i prodotti. L’indice di soddisfazione si è tradotto in indice di ‘delizia’: una volta bastava soddisfare il cliente, adesso occorre stupirlo con effetti speciali. Deliziarlo, appunto. Questo indice lo misura una società esterna, con un questionario fitto di domande che indaga a tutto campo l’esperienza cliente con i servizi Vodafone.
C’è anche un test post chiamata, che chiede al cliente di esprimere il suo livello di soddisfazione rispetto alla gestione della telefonata da parte dell’operatore. Questo avviene tutti i giorni e in pratica anticipa quello che arriverà con il rapporto trimestrale. Qualche tempo fa aveva preso piede l’idea di andare a campione sui punteggi più bassi del post chiamata per capirne i motivi, ma il sindacato ha bloccato l’iniziativa, considerandola, di fatto, come un controllo a distanza del lavoratore. Un sospetto che Vodafone tuttavia respinge.
“Se vuoi ottenere dei buoni risultati nel lungo periodo non puoi gestire un call center come fosse la Cayenna”, mi spiega il responsabile del centro romano, circa 400 addetti. La soddisfazione del cliente è legata a quella dell’operatore con cui interloquisce; e questo è il motivo per cui anche i dipendenti del customer care rispondono a un questionario interno di 90 domande che indaga vari aspetti della vita aziendale, a tutto campo. Del resto, quando il report generale arriva all’Ad, il primo settore che viene esaminato è proprio quello del customer care: perché qui sono radunati quasi metà dei dipendenti totali di Vodafone Italia, ma anche perché se non sono soddisfatti gli operatori è molto difficile che questi a loro volta soddisfino il cliente.
Anche per questo motivo i luoghi di lavoro sono molto curati. A Ivrea, la sede storica, il call center è negli stessi uffici dove un tempo lavorava Adriano Olivetti. Del resto per la città Vodafone è un po’ come la Fiat per Torino, un datore di lavoro con cui tutte le famiglie, direttamente o indirettamente, hanno a che fare. A Catania la sede è appena fuori dal centro, con vista mare e circondata di palme. E’ una palazzina modernissima, inondata di luce. La sala del call center, con un alto soffitto a capriate, è insonorizzata per evitare il rimbombo delle voci di centinaia di operatori che parlano tutti assieme. L’ambiente è confortevole, curato nei mimimi dettagli. C’è una sala relax, con divani, tv al plasma, chaises longues, dove ci si riposa negli intervalli contrattuali previsti ogni due ore di permanenza al microfono. C’è una sala mensa con cucina professionale, frigoriferi e microonde, per chi preferisce portarsi il pranzo da casa. In tutti i centri ci sono le salette per la formazione, che è costante e continua per nuovi e vecchi dipendenti.
Nel call center romano lavorano 450 persone, di cui il 95% a tempo indeterminato. Il 75% lavora part time, l’80% sono donne. Il part time è risultato conveniente sia per azienda che per il personale, molte donne con figli, che possono così disporre di orari flessibili, raccontano i dipendenti. Inoltre, con il part time l’azienda riesce a coprire meglio la curva di chiamate, e per il dipendente e’ meno stressante: dopo 5/6 ore di telefonate continue l’affaticamento e’ sensibile. Ciononostante, negli ultimi due anni, con accordo sindacale e su richiesta dei lavoratori, l’azienda ha trasformato in full time circa 200 lavoratori nel call center a livello nazionale.
Tra i principali compiti degli addetti al call center romano c’è la cosiddetta ‘retention‘ del cliente, cioè convincerlo a desistere dalla tentazione di cambiare gestore. Un compito importante, tanto è vero che il risultato pesa per una quota variabile sullo stipendio, anche fino al 30%. L’obiettivo ideale è una ‘retention‘ pari all’85%, cioè trattenere 85 clienti su 100, sulla clientela business al momento la media è del 65-70%; ma ci sono team che riescono a toccare l’80%. Fare questo lavoro non è affatto semplice. Non ci si aspetta che dietro la semplice chiamata di un cliente per disdettare un contratto, ci sia tutto un mondo che si attiva in mille maniere per evitare l’abbandono. E il tutto avendo a che fare con una utenza che è molto cambiata negli ultimi anni. Una volta, mi spiegano i ragazzi del centro operativo romano, il cliente medio capiva a malapena la procedura “cancelletto-asterisco-cancelletto”, oggi invece sono tutti preparatissimi, tutti vogliono l’accesso veloce a internet, la banda larga, le chiavette che consentono la connessione in movimento. Pochissimi chiamano per problemi legati al traffico voce, tutti, da Nord a Sud, e a prescindere dall’età e dall’estrazione sociale, puntano al web. “A volte i clienti ci contattano attraverso Facebook”, scherzano i ragazzi romani. Ma non è poi tanto uno scherzo: e c’è stato qualcuno che il cliente, addirittura, lo ha sposato.
Luana, in azienda dal 1999, arriva da Ivrea, lavora al call center dall’inizio. Con un certo orgoglio mi spiega che conosce il consumer come le sue tasche. Ora lavora con le aziende: “non basta un bonus a convincerli, dice. Con loro gestisci 100 sim per volta, stiamo parlando di un sacco di soldi, un incarico delicato”. Dice Carla: “siamo le stesse persone che hanno partecipato alla start up. Abbiamo vissuto tutti i cambiamenti di questa azienda, siamo passati da Omnitel a Vodafone”. Orgoglio di appartenenza a un marchio che ha segnato il boom delle telecomunicazioni mobili.
Ognuno ha un aneddoto da raccontare: il cliente che chiama per chiedere se “mi guarda dalla finestra se l’Ipermercato di fronte è aperto?”. O la mitica signora Mimma, che chiamava tutte le notti solo per avere compagnia: “chiacchierava un po’, poi ci cantava una canzoncina e andava a dormire serena”. Ma anche rispondere alla signora Mimma richiedeva una certa professionalità; infatti, ai ragazzi interinali spiegavamo che se chiamava la Mimma dovevano riattaccare. Le telefonate bizzarre sono infinite: “quello che chiamava per sapere “quanto pesi”?; “quello che ci diceva: “posso farti il cavallo’? e giù a nitrire e sbuffare”. Un altro voleva andare a Ivrea “con il sommergibile, per distruggere il call center”.
Tra gli inconvenienti del mestiere citano quasi tutti una certa idiosincrasia per il telefono: “a casa è un braccio di ferro con mia moglie, spiega Carlo, perché quando suona quello di casa io di rispondere non ne ho proprio più voglia”. Per contro, si diventa molto esigenti quando si ha l’occasione, da cliente, di chiamare un altro call center. “Quando capita, sono gentilissimo, è sempre Carlo che parla, perché so quanto è fastidioso essere maltrattati; però voglio anche che mi sappiano rispondere con competenza, come faccio io con i miei clienti”. Non mancano le critiche alla gestione di altri call center. “Alcuni pagano i dipendenti in base al numero di telefonate cui rispondono; e quindi ogni contatto con il cliente dura pochi istanti. Invece, a questo lavoro ti devi dedicare anima e testa: ogni cliente è un caso a sé, e va trattato come tale, fino alla soluzione ottimale”. Sono tutti orgogliosi di aver “innovato” il modo di gestire un centro risposte. “Una volta c’era la risposta impersonale: il classico “…dica..”. Poi siamo arrivati noi, erano ancora i tempi di Omnitel, e abbiamo introdotto la personalizzazione: “buongiorno, sono Valeria, cosa posso fare per lei”. E tutti ci hanno copiato”.
I “primi tempi” sono ricordati dai veterani: per esempio, quando è stato introdotta la number portabily, con i clienti che disdettavano l’operatore per passare ad altro. Una finestra temporale di tre giorni per convincerli a restare. “Quando stava per scadere l’ora X, facevamo le corse per chiamarne il più possibile ed evitare il trasferimento del numero. Chiamavamo con tutti i telefoni disponibili, compresi i nostri personali”.
Tutto questo ha risultati importanti. Fino a qualche anno fa nessuno avrebbe pensato di passare tutta la sua vita in un call center, ora la prospettiva è cambiata. Qui, pensano in parecchi, si può fare carriera: molti manager di prima fila arrivano da qui. E comunque per non abituarsi si cambia scenario di lavoro ogni due anni. Al call center romano l’età media è di 40 anni, contro una media di 33-34 del gruppo; non sono giovanissimi, ma, mi spiegano, “siamo cresciuti qui, assieme”. Emanuela: “lavorare qui non è ripetitivo, è come fare tanti lavori diversi. E poi si cambia, si può andare da una città all’altra, o all’estero”. Silvia, 39 anni, lavora qui da 13: “è una azienda che coinvolge e valorizza. Quello che mi dispiace è che quando dico dove lavoro mi rispondono: ah, fai la centralinista. Mi scoccia un po’: vorrei che vedessero che razza di lavoro facciamo. Altro che centralinista”.
Nunzia Penelope