Chi di noi non si è mai perso in un labirinto telefonico, ascoltando pazientemente le informazioni pronunciate dalla voce guida, salvo poi digitare l’opzione sbagliata e dover ricominciare tutto da capo?
Chi di noi non si è mai imbattuto in una conversazione con assillanti telefonisti che. Pur di vendere un prodotto o un servizio, incalzavano con interrogativi sulle nostre abitudini alimentari e non, facendoci perdere la pazienza?
Chi di noi, dopo trenta minuti di attesa e una lamentela sull’inefficienza del servizio offerto da quegli operatori, non si è sentito riattaccare il telefono, per dover ricominciare tutto da capo?
Insistenza, frustrazione e maleducazione di cui abbiamo troppo spesso incolpato i lavoratori dei call center, trattandoli alla stregua di mercenari senza etica, quando invece la causa di quella frustrazione era da addebitare ad un coordinamento del lavoro che li aveva lasciati nella “terra di nessuno” tra autonomia e subordinazione, dove non c’era stabilità del posto di lavoro né tantomeno garanzie previdenziali.
In quella “zona grigia”, delimitata dall’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civ., che definiva le collaborazioni coordinate e continuative, i call center hanno così prosperato per molti anni, fino a diventare uno dei principali serbatoi di posti di lavoro nel nostro Paese.
Tutto è cominciato a cambiare agli iniziai degli anni novanta.
Quando, con lo sviluppo dell’economia della conoscenza, quelle “fabbriche fantasma”, che secondo alcuni costituirebbero un “inferno post moderno”, sono finite nel mirino dell’opinione pubblica e poi delle istituzioni, a causa della più massiccia concentrazione di collaborazioni coordinate e continuative che il nostro mercato del lavoro abbia mai registrato in un singolo settore merceologico.
Così, è iniziato un lento percorso verso la riemersione di quei lavoratori dall’ “anomia” nella quale era stati relegati per decenni. Come se si potesse salvarli dall’ “inferno2 per non lasciarli in un “limbo”.
Il legislatore, da un lato, ha ridotto progressivamente i margini di profitto nelle imprese che operavano nel settore, introducendo un obbligo contributivo per le collaborazioni coordinate e continuative, che dall’originario 10% previsto dall’art. 2, comma 29 della legge n. 355 del 1995, è stato aumentato all’attuale 26,72%, stabilito dalla circolare INPS n. 13 del 2 febbraio 2010, di cui 2/3 a carico del committente.
Dall’altro, ha esteso alle lavoratrici titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa la tutela alla maternità e agli assegni del nucleo familiare, prevedendo il versamento di un ulteriore aliquota contributiva (art. 84 del d.lgs n. 151 del 2001).
Ma soprattutto, con la legge Biagi, il legislatore ha introdotto barriere definitorie e sanzionatorie che hanno limitato l’utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative a quelle prestazioni genuinamente autonome, rese cioè in funzione di un risultato predeterminato.
Questo obiettivo è stato precisato nelle circolari ministeriali n. 1 del 2004 e n. 17 del 2006, quest’ultima relativa proprio all’utilizzo del contratto a progetto nel settore dei call center.
In questa circolare si chiarisce che l’utilizzo delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto è compatibile con la prestazione offerta dall’operatore del call center, ma solo ove l’attività svolta da quest’ultimo consista nel “contattare, per un arco di tempo predeterminato, l’utenza di un prodotto o servizio riconducibile ad un singolo committente“, ovvero il collaboratore operi all’interno delle campagne cd. “out bound” (cfr. Circ. Min. Lav. N. 17/2006).
Solo in tali casi, infatti, sarebbe configurabile un genuino progetto, programma di lavoro o fase di esso, in quanto l’operatore può gestire la propria attività e pianificarla autonomamente.
Viceversa, nelle attività cd. “in bound“, in cui l’operatore si limita a rispondere alle chiamate in entrata e a fornire informazioni al cliente, non sarebbe ipotizzabile il lavoro a progetto, trattandosi di una attività non predeterminabile e, di conseguenza, incompatibile con i requisiti di una collaborazione resa in regime di completa autonomia.
In un simile contesto, il provvedimento ministeriale ha avuto il merito di stimolare il legislatore ad emanare norme che prevedessero il graduale inserimento dei collaboratori dei call center nell’area della subordinazione, attraverso percorsi di stabilizzazione dei collaboratori a progetto.
Ed infatti, con l’art. 1, comma 1202 e ss., della legge n. 296 del 2006 (legge finanziaria del 2007) il legislatore ha offerto a tutte le imprese (e cioè anche a quelle teoricamente in linea con le indicazioni normative) la possibilità di stipulare di accordi aziendali ovvero territoriali con le organizzazioni sindacali, promuovendo in questo modo “la trasformazione dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, mediante la stipula di contratti di lavoro subordinato“.
Al contempo, il legislatore ha imposto alle imprese interessate al percorso di stabilizzazione di versare all’INPS una parte dei contributi che avrebbero versato se il rapporto fosse stato regolarizzato sin dalla sua origine, e al lavoratore di sottoscrivere un atto di conciliazione relativamente ai diritti di natura retributiva, contributiva e risarcitoria per il periodo pregresso.
Pertanto, una volta stipulato l’atto di conciliazione risultava precluso ogni accertamento di natura fiscale e contributiva per i pregressi periodi di lavoro oggetto di stabilizzazione (art. 1, comma 1207, legge 296/2006).
E così, secondo altri, si sarebbe passati dall’ “inferno” al “paradiso”, soprattutto se si guarda a quelle imprese che sono state più realiste del re, come ad esempio la Vodafone, che, superando l’incerta distinzione “in bound – out bound, ha preferito assumere tutti i lavoratori addetti ai call center con contratti a tempo indeterminato scommettendo più che sul basso costo del lavoro, sulla fidelizzazione dei lavoratori.
In altri termini, una scommessa al rialzo, riassunta nella formula: fidelizzare per competere.
Si tratta di esperienza importanti che devono essere seguite con attenzione.
Sono cruciali per il nostro Paese perché, per migliorare la qualità del servizio reso all’utente, trasformano la stabilità del posto di lavoro e la certezza della retribuzione a fine mese, in un fattore competitivo per le imprese.
Così, se il lavoro dei call center poteva sembrare l’inferno, forse quello presso la Vodafone potrebbe sembrare il paradiso. Speriamo che il mercato premi questa coraggiosa scommessa. E che telefonando alla Vodafone non ci capiti più di perderci nel labirinto dei call center, dove l’unica compagnia è quella di una voce registrata.
Michel Martone, professore di diritto del lavoro dell’Università Luiss