Le attività di call center sono da considerarsi strategiche per lo sviluppo commerciale di molte imprese del nostro Paese. Come tutti i settori dell’economia nati di recente, possiedono una sorprendente rapidità di sviluppo, con repentini cambiamenti produttivi, organizzativi e societari che consentono un più facile adattamento a un mercato in continua evoluzione, fatto di committenti pubblici e privati di rilievo per la nostra economia. Si tratta inoltre di un comparto i cui operatori sono di varia natura: talvolta imprenditori seri, ma in alcuni casi, e le cronache di questi mesi lo confermano, di dubbia levatura, orientati solo verso speculazioni finanziarie e senza alcun piano industriale.
Per il sindacato è quindi importante un approccio conoscitivo capace di interpretare a fondo le caratteristiche strutturali, organizzative e occupazionali, per poter intervenire concretamente sia sulle condizioni di lavoro sia – attraverso un confronto con il potere legislativo e le associazioni datoriali – sulla sua crescita e sul rispetto delle norme contrattuali e di legge, con l’obiettivo di garantire il diritto a un lavoro sicuro per chi vi è occupato, oltre alle stesse certezze economiche e sociali che pretendiamo per tutti i lavoratori del nostro Paese.
Seppure recente, il lavoro nei call center ha richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica che grazie a inchieste, studi e persino libri e film, ha potuto conoscere e comprendere pezzi importanti di questo mondo.
Da tutto questo lavoro d’indagine e ricerca e dalla nostra concreta azione sul campo abbiamo capito che nel suo complesso il lavoro nell’universo dei call center non è né meglio né peggio di tanti altri lavori, e che contiene al suo interno tutte quelle contraddizioni tipiche del sistema produttivo, fatte di scale gerarchiche, stili di management, tentativi molte volte purtroppo riusciti di utilizzare la precarietà, la flessibilità non contrattata degli orari, e salari sotto ai minimi contrattuali; aspetti, questi, che purtroppo ritroviamo in molte altre attività economiche e produttive.
La particolarità di questo comparto consiste nel fatto che in esso vi sono occupati in stragrande maggioranza giovani, soprattutto donne, con un livello di scolarità ben al di sopra della media nazionale e che avevano immaginato per sé stessi un futuro diverso dalla precarietà. A differenza delle altre attività economiche, questa è presente in maniera rilevante in tutte le aree del nostro Paese, al nord, al centro come al sud.. Quest’ultimo aspetto, in sé positivo, nasconde un’insidia, poiché la non necessaria vicinanza fisica ai luoghi della produzione permette l’affermarsi sempre di più, seppure per ora in forma limitata, dell’esternalizzazione del lavoro nei mercati cosiddetti low cost, cosicché buona parte delle attività che fino all’altro ieri erano svolte nei call center di tutt’Italia, ora stanno per essere affidate a imprese di outsourcing italiane e poi, tramite subappalto delle stesse, ad aziende già operanti nell’est europeo o in altri paesi dell’Africa mediterranea.
È questa la fase più recente di una trasformazione continua di questo settore che era balzato agli onori della cronaca nel 2006 a seguito dell’abuso nell’utilizzo dei contratti a progetto.
A quel tempo l’allora Ministro del lavoro, anche a seguito dell’iniziativa del sindacato, era intervenuto ponendo alcuni punti fermi, prima con una circolare e poi con la finanziaria 2007. Con quelle norme si stabiliva tra l’altro che determinati lavori svolti nei call center non potevano che essere considerati subordinati, proprio perché alcuni obblighi organizzativi e di orario in capo al lavoratore impiegato a progetto avrebbero dovuto determinare con certezza il suo diritto a un lavoro stabile. Grazie a questi interventi legislativi è stato possibile stabilizzare circa 24mila rapporti di lavoro che in precedenza erano precari. Questo ha fatto sì che molti lavoratori con salari irrisori e orari ridottissimi, addirittura di due ore e mezzo giornaliere, fossero assunti a tempo indeterminato e che i loro rapporti di lavoro venissero trasformati in part time di quattro, sei e otto ore al giorno, con in più anche una vera copertura previdenziale.
A questi interventi governativi seguirono diverse iniziative negoziali del sindacato, supportate dalle nuove norme che aprivano forti spazi di contrattazione sugli orari di lavoro, sui salari, sui livelli d’inquadramento e sul diritto alla formazione.
Fu una stagione importante e da molti giudicata virtuosa, condivisa dalla gran parte delle aziende ma i cui effetti ora sono messi a rischio dalla concorrenza sleale delle cosiddette “imprese del sottoscala”, o di quelle che non hanno voluto adeguarsi al principio del superamento del lavoro a progetto, complice anche la totale assenza di controlli ispettivi da parte degli organi governativi preposti.
Il venir meno del supporto dei poteri pubblici ha di fatto annullato quella stagione per noi favorevole, salvo alcune eccellenze. Ma si sa, la moneta cattiva scaccia sempre quella buona, e ora le condizioni di lavoro rischiano di tornare quelle precedenti. Se si parla di qualità dei servizi che le imprese del settore devono garantire, se si vuole rapportarsi al cliente, addirittura sorprenderlo come si dice “con effetti speciali”, sono necessari lavoratori motivati e di qualità, con diritti e tutele, e la politica del ribasso economico nell’assegnazione delle commesse (che prevedono costi del lavoro addirittura inferiori a quanto previsto dal contratto di lavoro), è certamente inconciliabile.
In tema di diritti inoltre l’attuale Governo non ha ancora risolto alcune differenze con gli altri lavoratori, non ultima quella sul diritto a beneficiare degli ammortizzatori sociali per tutti i dipendenti del comparto.
Permane, infatti, la contraddizione tra le imprese che ne beneficiano perché iscritte all’INPS sotto la categoria industria e la stragrande maggioranza delle altre, sempre del settore, che essendo iscritte come servizi, possono contare solo sugli strumenti in deroga: meno sicuri, di durata inferiore e che tra l’altro non comprendono il diritto all’indennità di mobilità in caso di licenziamento.
Anche le forme di assunzione sono un problema che va affrontato. Se la contrattazione in un’azienda porta alla stabilizzazione di tutti i dipendenti con contratti a tempo indeterminato, ma poi è possibile utilizzare una quarantina di tipologie diverse di rapporto di lavoro, è del tutto evidente che le imprese meno virtuose cercheranno di esternalizzare verso forme di lavoro per loro più remunerative ma più precarie. Si dice che la forza di una catena è data dalla resistenza dell’anello più debole: nel nostro mercato del lavoro sono troppi gli anelli deboli, determinati dalle decine di tipologie di assunzione che noi vogliamo siano drasticamente ridotte.
È interesse di tutti i soggetti coinvolti che la competizione avvenga sempre più sulla qualità e sempre meno sulle politiche ribassiste; ma perché sia così è indispensabile il coinvolgimento dei committenti, a cominciare da quelli pubblici o a partecipazione pubblica perchè, quando si parla di standard minimi di qualità per corrispondere agli interessi dell’utente, e si afferma che l’erogazione dei servizi di contatto deve essere improntata alla massima trasparenza e alla coerenza con le finalità e gli obiettivi del servizio stesso, si deve poi sapere che il reddito degli operatori dei call center non può attestarsi, fatta salva qualche limitata e pregevole eccezione, tra i 600 e gli 800 euro mensili, altrimenti si tratta della solita logica del passato: volersi avvalere di un lavoratore moderno, bravo e professionalizzato, trattandolo però all’antica e negandogli i diritti fondamentali.
Insomma, il call center può rappresentare un elemento importante per la competitività dell’impresa a patto che si investa sulla qualità del lavoro, del servizio e sul riconoscimento della professionalità degli addetti.
Nino Baseotto, segretario generale della Cgil Lombardia