Velocità di cambiamento, astrattezza del senso, virtualità del servizio, relatività assoluta delle condizioni di vita, sia personale che pubblica. Sono le caratteristiche di quella che viene definita da molti una vita precaria, alle volte scandita da brevi momenti di equilibrio nel lavoro o negli affetti, che sembrano quasi voler sottolineare la provvisorietà dell’attimo. Il lavoro nel call center, soprattutto da parte dell’opinione pubblica, è un po’ la materializzazione del concetto di precarietà e non è un mistero che, anche per questa ragione, in tanti, a partire dall’immagine diffusa dai media di ogni genere, si siano attardati nel considerare chi lavora nei call center dei reietti del mercato del lavoro. Persone, non veri e propri lavoratori, che hanno una prospettiva di vita labile e che si muovono lungo un filo sottile e instabile.
Ribaltare questa visione del call center come l’unica metafora del lavoro precario, sarebbe un primo e importante passo verso la valorizzazione di un’attività che è meno debole di quanto si possa immaginare, per una società come la nostra, assuefatta all’indispensabilità del servizio e all’essenzialità del contatto.
Basti pensare a cosa accadrebbe se non esistessero più quei lavoratori che ogni giorno si mettono a disposizione della società, ascoltando e registrando le difficoltà di funzionamento di un qualsiasi prodotto e diventando valvola di sfogo di ogni qualsivoglia isteria consumistica.
Ci sono senza dubbio fenomeni negativi e il tempo finora trascorso è testimone di un’occasione non colta, quella cioè che avrebbe potuto trasformare migliaia di giovani precari impiegati nei call center in professionisti seri, con reali prospettive di crescita personale, soddisfatti del proprio lavoro e di se stessi e nello stesso tempo contribuire alla crescita dell’economia del nostro paese, investendo in un settore, quello della comunicazione e dei servizi, importante per la nostra attuale società. Abbiamo assistito, invece, a uno svilimento del senso del lavoro e del suo valore, che ha condotto alla creazione di grosse e sterili scatole colme di giovani insoddisfatti.
Anche il call center può essere un’occasione di crescita, di promozione e di investimento, al pari di qualsiasi altro lavoro, purché esso sia dignitoso e remunerativo sia dal lato economico che da quello emozionale. Non è un’affermazione retorica, ma una convinzione che dovrebbe essere diffusa. La crisi economica e la cattiva gestione di alcune aziende hanno contribuito ad alimentare la figura dell’operaio da call center come il più fragile tra i fragili, economicamente e psicologicamente provato da una condizione bloccata in un eterno presente. Bisognerebbe invece investire nel valore del lavoro e lanciare ai giovani il messaggio che il merito paga. Occorre quindi pensare a modelli contrattuali che siano in grado di valorizzare la qualità di questo specifico e importante mestiere, garantendo le giuste garanzie e pagando meglio chi più merita.
Essere un operatore di call center non è un lavoro dequalificato, ma una professione che ha il diritto e il dovere di raggiungere alti livelli di qualità e ottimi risultati.
Se guardiamo al passato, possiamo ritrovare la figura dell’operaio professionalizzato capace di individuare il punto di fusione di una colata. Allo stesso modo, gli operatori di call center hanno la capacità di istaurare con il cliente un rapporto di fiducia fondamentale perché l’azienda raggiunga i suoi obiettivi di produzione. E’ giusto allora che questa capacità sia valutata e premiata, anche economicamente. È necessario che chi fa un buon lavoro possa godere concretamente del suo impegno e sentirsi soddisfatto, anche in termini di remunerazione. Qualità, formazione e impegno sono fattori sui quali puntare e investire per modificare la concezione stessa del lavoro nel call center, che verrebbe così rivalutato come un impiego serio e non più idealizzato come luogo di un non-lavoro di passaggio. La leva contrattuale in questo senso non è assolutamente indifferente, anzi è uno degli strumenti fondamentali a nostra disposizione per valorizzare l’apporto del singolo, per garantire maggiori guadagni, una diversa modulazione delle tutele adatte a una platea di lavoratori giovani e con interessi nuovi e maggiore disponibilità al lavoro e alla ricerca del risultato.
Da questo punto di vista, abbiamo già conosciuto delle esperienze importanti, come quella Vodafone, di innovazione nei modelli contrattuali che hanno rivalutato il merito. Ebbene, esperienze di tale genere andrebbero migliorate, perfezionate e ripetute.
Nel momento in cui la globalizzazione ha segnato il definitivo e irreversibile tramonto del modello fordista di organizzazione del lavoro e della produzione, è iniziata contestualmente a crescere la domanda di relazioni e di regole contrattuali moderne tra lavoratori e imprese. Non è una novità. La questione, tuttavia, è sicuramente centrale nel settore dei servizi più innovativi, a partire dai call center, per arrivare alle vendite attraverso il telefono. La strada che abbiamo davanti è tutta in salita, ma è purtroppo obbligata: non possiamo che abbandonare l’idea del lavoro come merce e concentrarci sulla persona, che deve diventare il centro delle regole, dei diritti e delle tutele. È per tali ragioni che si afferma la necessità di costruire contratti nuovi che rispettino e valorizzino in tutti i modi qualità, merito e aspirazioni degli uomini e delle donne che lavorano. La sfida sarà quella di costruire un mix nuovo e virtuoso tra merito, regole, tutele, reddito, mercato e flessibilità. Quanto al sindacato, ruolo e funzione saranno tanto più esaltati e qualificati ad ogni passo che farà per avvicinarsi alle esigenze e alle aspettative concrete di ogni singolo individuo che lavora.