Lo scorso Primo Maggio, celebrando la festa dei lavoratori, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha richiamato l’attenzione sul lavoro nei call center, da sempre identificato come emblema del lavoro precario e soprattutto del precariato giovanile. Il capo dello Stato ha affermato di avere “sempre in mente le condizioni e le ansie di questi lavoratori. Sono vicino a loro, penso a loro quando, nell’ambito del mio ruolo che non è di governo, mi esprimo sui temi della politica economica e sociale”. E’ noto come nel corso degli anni, il tema ha dato luogo a numerose discussioni sia sui media che tra gli operatori del diritto, soprattutto riguardo la necessità di stabilizzazione e di maggior chiarezza normativa di tali rapporti di lavoro. In effetti, il punto di maggior criticità è sempre stato l’impiego di lavoratori formalmente assunti come collaboratori a progetto (in seguito all’entrata in vigore del d.lgs. n.276/2003), ma utilizzati in realtà come lavoratori subordinati in quanto sostanzialmente soggetti al potere direttivo e disciplinare del datore.
Sul tema, si sono susseguite nel tempo diverse circolari ministeriali e numerose pronunce giurisprudenziali che hanno contribuito, in modo consistente, a modulare i confini di questa specifica categoria di lavoratori. La circolare del ministero del Lavoro n. 1 del 2004, rivolta in generale a tutti gli impieghi a progetto, chiariva che il progetto dovesse essere identificato come un’attività produttiva “ben identificabile e funzionalmente collegata ad un determinato risultato” e che questo non può, in alcun modo, coincidere con una mera riproduzione dell’oggetto sociale. Dunque, in linea teorica, l’impiego nel call center ben si presta all’utilizzo del contratto a progetto quando questo sia individuato con una specifica commessa per la cui realizzazione vengano utilizzati, per l’appunto, collaboratori a ciò adibiti. Il successivo intervento, operato dal ministero con la circolare n. 17 del 2006, può essere considerato il vero punto di svolta ai fini della corretta interpretazione delle norme sul lavoro a progetto applicate al settore dei call center. La novità di maggior rilievo è certamente l’introduzione di una netta demarcazione tra attività inbound e attività outbound. Nel primo caso l’attività del collaboratore si limita alla mera ricezione di telefonate da parte degli utenti di un servizio o di un prodotto; nel secondo caso, invece, il collaboratore si impegna a contattare, in un arco di tempo determinato, la clientela segnalata da un committente relativamente ad un determinato servizio e/o prodotto. Secondo l’interpretazione fornita dal ministero, l’ipotesi di attività inbound è incompatibile con la forma contrattuale del lavoro a progetto, diversamente dalla seconda ipotesi che invece consente al collaboratore di gestire e pianificare autonomamente la propria attività. Dunque, sempre secondo le indicazioni fornite dal ministero, mentre per le attività outbound l’utilizzo del cd. co.co.pro. appare legittimo, nel caso di attività inbound sarebbe corretto unicamente l’utilizzo di forme contrattuali di natura subordinata.
Se è certamente condivisibile l’intento di intervenire sull’uso fraudolento dei contratti di lavoro a progetto, tuttavia il rimedio rinvenuto ha destato diversi dubbi. Invero, la determinazione preventiva di quali siano le attività da considerarsi di tipo autonomo e quali di carattere subordinato appare in contrasto con il consolidato orientamento dottrinario e giurisprudenziale secondo cui ogni attività lavorativa è in astratto riconducibile tanto all’una quanto all’altra categoria. In definitiva, la riconducibilità al lavoro di tipo autonomo, piuttosto che subordinato, di una specifica attività lavorativa dovrebbe essere rimesso, in ultima analisi, alla valutazione del giudice in base al concreto atteggiarsi del singolo rapporto. Detto ciò, non vi è dubbio che con la circolare in commento il ministero ha certamente indotto ad una maggiore attenzione nell’area delle collaborazioni, in precedenza troppo spesso caratterizzata da una forte deregolamentazione e da un utilizzo quanto meno disinvolto delle varie tipologie contrattuali.
Successivamente, sul tema sono intervenute le parti sociali, con specifico riferimento ai profili legati alla stabilizzazione dei collaboratori. Invero, il 4 ottobre 2006 le organizzazioni sindacali confederali, Confidustria, Fita e Assocontact, hanno sottoscritto un avviso comune con il quale si recepivano le indicazioni fornite dal ministero avviando un processo di stabilizzazione di collaboratori coinvolti in attività inbound, e consentendo contestualmente la prosecuzione di collaborazione a progetto per quei lavoratori impiegati in attività outbound. All’ avviso comune è poi seguito l’intervento normativo contenuto nella Finanziaria 2007 che, ai commi 1202 e ss, ha introdotto una serie di norme volte a favorire processi di stabilizzazione nell’area delle collaborazioni coordinate e continuative. Gli accordi di stabilizzazione siglati sulla base dell’ avviso comune e delle norme contenute nella Finanziaria hanno consentito, nell’arco di circa un anno, la trasformazione di 24 mila rapporti di collaborazione in rapporti di lavoro di natura subordinata, molti dei quali a tempo indeterminato.
Nel corso del 2008, si sono succeduti ben tre interventi: le circolari ministeriali n.4 e n. 8 del 2008 e la nota del ministero del 27 novembre 2008. Con la circolare n. 4/2008 il ministero stringeva ulteriormente le maglie sull’utilizzo delle collaborazioni a progetto e, indipendentemente dal settore di impiego, individuava specifiche attività ritenute a priori incompatibili con la forma di lavoro a progetto. Quanto al contenuto della prestazione si specificava che le attività elementari, ripetitive e predeterminate erano da considerarsi “difficilmente compatibili con attività di carattere progettuale finalizzate a fornire un risultato suscettibile di valutazione” in quanto concretizzabili in una mera messa a disposizione di energie lavorative. La successiva circolare n. 8 del 2008, con particolare riferimento al percorso di trasformazione dei rapporti di lavoro nelle attività di call center, stabiliva che le attività outbound non potranno comunque essere qualificate come prestazioni autonome ove si sia in presenza di talune “criticità”: assenza di una specifica campagna promozionale; previsione di attività di inbound ulteriori a quelle di outbound; mancata gestione autonoma della quantità e della collocazione temporale dell’attività; mancata autodeterminazione dei ritmi lavorativi; postazione di lavoro non dotata di apposito dispositivo atto a consentire al collaboratore in qualsiasi momento l’interruzione della prestazione; esercizio da parte del committente, del potere direttivo e disciplinare nei confronti del collaboratore.
Con il cambio di Governo, avvenuto a metà del 2008, si è assistito ad una chiara inversione di tendenza che ha mostrato i suoi effetti anche nel settore dei call center. In effetti, le rigorose indicazioni poco sopra ricordate vengono superate con la nota ministeriale del 27 novembre 2008 che delinea un netto cambio di rotta nei criteri di inquadramento delle attività a progetto. In primo luogo, viene affermata l’inefficacia delle presunzioni di subordinazione per le attività indicate nella circolare ministeriale 4/2008. In secondo luogo si afferma che l’uso fraudolento del contratto di collaborazione debba essere rimesso esclusivamente alla verifica dei “contenuti del programma negoziale” e degli altri elementi utili a valutare la corretta qualificazione del rapporto di lavoro. In particolare viene chiarito che la fraudolenza non può essere dichiarata ove si sia in presenza di una mera genericità del contratto. La nota ministeriale si conclude poi con l’elencazione di taluni elementi da considerarsi puramente indiziari e presuntivi di un rapporto di lavoro subordinato.
Rimane ora da richiamare la posizione che la giurisprudenza ha assunto sul tema nel corso degli ultimi anni. Tra le diverse pronunce relative al tema, la sentenza di maggior rilievo è senza dubbio la n. 9812 del 2008 pronunciata dalla Corte di Cassazione, sezione Lavoro, e che è stata oggetto di un forte dibattito, probabilmente non privo di alcuni eccessi enfatici. Se è vero che la suprema corte ha in una qualche misura “esploso” la nozione di indici sintomatici della subordinazione, non è altrettanto vero che, come erroneamente ripreso dai media, abbia fissato – né avrebbe potuto – il principio generale in base al quale tutti gli operatori di call center vadano considerati come lavoratori subordinati. Invero, la Cassazione ha esteso e fissato in via generale, i parametri in base ai quali sia possibile qualificare come lavoro subordinato il concreto atteggiarsi di una data attività lavorativa. La circostanza che in molti casi l’impiego nei call center si concreti in attività riconducibili a quei suddetti parametri non comporta, evidentemente, la fissazione aprioristica del principio in base al quale l’operatore di call center vada di per sé considerato un lavoratore subordinato.
Anche alla luce di quanto appena esposto è possibile ora avanzare alcune osservazioni conclusive. Da un punto di vista strettamente giuridico è doveroso notare come, se si prescinde dalle categorie mediatiche, l’intera questione vada senza dubbio ricondotta ai profili generali che distinguono il lavoro autonomo da quello subordinato e che dunque il settore dei call center non può comunque costituire una atipicità rispetto alle categorie legali. Se si considera pacifico il principio in base al quale ogni attività lavorativa può svolgersi tanto in forma autonoma, quanto in forma subordinata, allora non può che concludersi che il corretto inquadramento di una prestazione lavorativa non può che essere demandato all’analisi, in ultima istanza demandata al giudice, delle concrete modalità in cui è svolta la stessa.
Fabrizio Sammarco e Patrizio Caligiuri,
dottorandi all’Università di Modena e Reggio Emilia