I call center, a causa della dinamica dei prezzi, rischiano di tornare a tre anni fa, quando erano luoghi amorali per condizione, diritti, retribuzioni; luoghi dove si lavorava per non guadagnare nulla, dove eri sempre a disposizione e non riuscivi spesso a pagarti nemmeno il costo degli spostamenti tra casa e lavoro. Quella stagione è alle nostre spalle e nessuno ne sente nostalgia.
Con la circolare Damiano il call center è diventato, e non poteva essere altrimenti, un luogo di lavoro normale dove c’è un equilibrio tra prestazione e retribuzione. Non siamo e non vogliamo essere l’Albania o la Romania e non sogniamo di vivere in un paese dove si riproducono contesti albanesi e rumeni.
Certo, ormai il ricatto competitivo è tornato ad aleggiare sulla testa dei lavoratori. La scadenza, a partire dal 2010, degli incentivi che hanno permesso gli sgravi contributivi, crea preoccupazione. C’è il rischio che vengano persi oltre 20.000 posti di lavoro, per la maggior parte allocati nel Mezzogiorno. Stiamo parlando di forti concentrazioni di lavoratrici e lavoratori nelle realtà tradizionalmente deboli dal punto di vista sociale: Taranto, Vibo Valentia, Catanzaro, Palermo, Bari, Napoli; ma anche a Nord, da Ivrea a Novara a Monza. Stiamo parlando di crisi aziendali che rischiano di compromettere l’insieme del tessuto sociale e dunque di trasformarsi in crisi di intere aree territoriali. Questo è il motivo fondamentale che spiega l’aumento delle delocalizzazioni verso Albania, Tunisia e Romania, dove ormai imprese che sfruttano selvaggiamente il lavoro operano anche su commesse di importantissimi committenti italiani. Le grandi imprese, nel mezzo di una crisi pesantissima che distrugge lavoro, non ritengono evidentemente di assolvere ad una responsabilità verso il paese, verso il lavoro del paese: questo è il problema con il quale bisogna fare i conti. L’altro motivo, insieme alla caduta dei prezzi e alla scadenza degli incentivi, è rappresentato dalla circolare del ministro Sacconi che riporta dentro l’area del lavoro atipico il cosiddetto outbound. E’ una decisione che sta determinando la distruzione dell’occupazione che si era creata, una minaccia diretta verso migliaia di lavoratrici e lavoratori! I prezzi calano anche per questo, perché il ministro ha permesso il ritorno al passato, alla fase che avevamo superato con la circolare Damiano. Sono questi i motivi che ci hanno indotto a chiedere, ed ottenere, un tavolo di confronto alla presidenza del Consiglio. Il tema è importante e va affrontato al massimo livello.
In ogni caso non accetteremo ritorni all’indietro e la nostra determinazione a perseguire la strada dell’insolvenza finanziaria a Phonemedia serve a comprendere la nostra determinazione su questo terreno scivoloso. Il contratto delle telecomunicazioni deve rimanere il punto di equilibrio che tutti assieme abbiamo accettato, tra l’altro dentro e non prima lo scoppio della crisi, e lo faremo rispettare senza alcuna manomissione di fatto.
Forse però è venuto il momento di occuparsi del modello organizzativo, che mi sembra sostanzialmente ingessato. La domanda è se si può mantenere ancora un modello organizzativo separato rigidamente tra inbound e outbound; se possiamo tollerare ancora che in questo mondo continui la logica del part time a 4 ore, che lega i lavoratori insensatamente all’impresa, non li fidelizza, e non favorisce la messa a punto di modelli diversi di organizzazione degli orari e del lavoro.
Abbiamo chiesto ed ottenuto l’apertura di un tavolo alla presidenza del Consiglio per rispondere anche su quel versante alla crisi dei call center, perché sappiamo che l’equilibrio sociale e di mercato è condizionato anche dalla scadenza degli incentivi per la stabilizzazione dei lavoratori favoriti dalla circolare Damiano.
E allora, piuttosto che inseguire le delocalizzazioni che producono vantaggi solo effimeri e sostanzialmente limitati, è necessario costruire una strategia di medio periodo che abbia come obiettivo la crescita qualitativa e la diversificazione della vita produttiva dei call center.
In questi anni si è stratificata una presenza importante dei call center nelle aree più depresse del Mezzogiorno e, come in quella piemontese e toscana, investite da crisi e ristrutturazioni decennali. Una volta, in queste aree, soprattutto a Sud, era lo stato ad occuparsi, fossero i forestali o i lavoratori socialmente utili, dell’equilibrio occupazionale; oggi rischiamo di espungere l’impresa privata che ha investito e creato occupazione produttiva. Il governo non può fare finta di non sapere che la crisi dei call center a Catanzaro o Vibo Valentia, piuttosto che a Taranto, a Napoli o Palermo, può trasformarsi, si trasformerà in crisi d’area, il cui impatto sui territori minaccia di essere pesante e lacerante. Per questi motivi chiediamo un’ attenzione particolare e decisioni in tempi brevi. Lo diciamo, ovviamente, sia ai partiti d’opposizione che alla maggioranza di governo.
Emilio Miceli, segretario generale Slc Cgil