Con l’emanazione del Codice della partecipazione si compie un ulteriore passo nell’opera
di modernizzazione del nostro mercato del lavoro verso relazioni industriali più
partecipative e meno conflittuali.
Si tratta di un passo importante, soprattutto di fronte alla crisi economica che minaccia il
nostro sistema produttivo, sia sotto il profilo della sostanza che sotto quello del metodo.
Sotto il profilo sostanziale, perché, come emerge da molti dei provvedimenti comunitari
indicati nel Codice, e soprattutto dai rapporti Pepper degli anni ’90, la diffusione della
partecipazione è direttamente proporzionale al tasso di modernità dei diversi mercati del
lavoro. Non a caso, è largamente diffusa in Francia, Regno Unito e Germania, che
vantano una lunga tradizione di relazioni industriali partecipative, si sta diffondendo a
ritmi elevati in mercati del lavoro efficienti, come quelli del Belgio, della Finlandia,
dell’Austria e dei Paesi Bassi, mentre è ancora scarsamente diffusa in Spagna, Portogallo,
Grecia e negli altri paesi che sono recentemente entrati nell’Unione Europea.
Ma soprattutto perché, come emerge dai rapporti della Fondazione di Dublino, il tasso
di diffusione della partecipazione finanziaria dei lavoratori è sicuro indice di buona
occupazione. Cresce tra le figure manageriali e, più in generale, tra i lavoratori di elevata
scolarizzazione e tra quelli che hanno contratti di lavoro a tempo indeterminato, mentre
è scarsamente diffusa tra i lavoratori manuali e tra i precari.
Ma c’è di più, perché guardando le stesse statistiche, ci si rende conto che la
partecipazione finanziaria, come quella azionaria, è un anche un forte stimolo allo
sviluppo qualitativo dei sistemi produttivi. E’, infatti, maggiormente diffusa tra le
economie avanzate e comunque nei settori produttivi legati all’economia della
conoscenza e in quelli del terziario avanzato nei quali si pratica l’intermediazione,
immobiliare o mobiliare, ovvero nei settori sui quali il nostro paese dovrebbe
scommettere per sottrarsi al dumping sociale dei paesi in via di sviluppo.
Si tratta di statistiche importanti che non dobbiamo sottovalutare perché dimostrano che
la condivisione tra datore di lavoro e lavoratori dei risultati dell’azienda è un formidabile
stimolo per migliorarne la produttività e non un escamotage per ridurre le retribuzioni.
Ed è proprio per questo che la scelta del Governo e delle Parti Sociali di sottoscrivere
l’avviso comune che ha portato alla presentazione del Codice della partecipazione deve
essere valutata con favore anche sotto il profilo del metodo.
Di fronte ai tanti disegni di legge che sono stati presentati nel corso delle ultime
legislature, il Governo e le Parti Sociali, con l’emanazione del Codice, dimostrano di aver
preso piena consapevolezza del fatto che il nostro Paese ha anzitutto bisogno di
semplificazione e sussidiarietà.
Per questo, per far decollare quella partecipazione di cui si parla da anni, ha fatto bene a
procedere ad una razionalizzazione del complicato quadro normativo che si compone di
leggi comunitarie e costituzionali, nazionali e internazionali e di altri provvedimenti
amministrativi e contrattuali.
Ma soprattutto ha fatto bene a rinunciare ad emanare l’ennesima legge nella quale si dice
a ciascuno come e cosa fare, ma che poi non viene rispettata, per seguire la diversa via
della sussidiarietà e responsabilizzare gli attori sociali.
Ora tocca a loro. Speriamo che sfruttino questa opportunità, perché nel nostro Paese, se
abbondano le leggi che non funzionano, mancano da anni quei contratti collettivi di
secondo livello che dovrebbero modernizzare le relazioni industriali.
Come dimostra il successo di quelle esperienze europee nelle quali la diffusione di
relazioni industriali più partecipative e meno conflittuali è riuscita a migliorare la
produttività delle aziende come le retribuzioni dei lavoratori.
Michel Martone, ordinario di diritto del lavoro