Ora che un primo, sottile velo di polvere si è posato sull’accordo di Pomigliano e le relative polemiche, è forse possibile abbozzare alcune considerazioni che interpretino i fatti in chiave di prospettiva senza l’eccessivo carico polemico della prima ora.
E’ il caso, preliminarmente, di sgombrare il campo da alcuni falsi problemi che hanno curiosamente occupato tanta parte del dibattito immediatamente susseguente la firma dell’accordo: esso non viola né leggi, né tanto meno la Costituzione.
Ma ciò per un motivo tanto ovvio da essere, come dire, sfuggito nelle radicalizzazioni polemiche dei contrapposti partiti scesi rumorosamente in campo. Non vi è alcuna violazione del diritto di sciopero dei lavoratori di Pomigliano, semplicemente perché l’accordo non prevede alcuna sanzione disciplinare in capo a chiunque scioperi anche in violazione delle regole dell’accordo stesso. Infatti, una cosa sono le sanzioni poste in capo alle organizzazioni sindacali in caso di mancato rispetto degli impegni assunti (e tra le possibili violazioni rientra senz’altro anche la dichiarazione di sciopero su materie regolate dall’intesa in questione), previste dall’art.14 (Clausola di responsabilità); cosa tutt’affatto diversa è la minaccia di provvedimenti disciplinari, previsti dall’ art. 15, a carico di singoli lavoratori che non ne rispettino i contenuti. Per contenuti dell’accordo si devono intendere le regole e le disposizioni materiali ivi previste, non certo l’esercizio del diritto di sciopero che non è minimamente regolato dall’accordo; e del resto non potrebbe essere altrimenti giacchè, come alcuni commentatori sembrano dimenticare, la regolamentazione, ed eventualmente limitazione, di tale esercizio è riservata esplicitamente dalla Costituzione alla legge, e non certo ad un mero contratto di diritto privato.
In sostanza se una organizzazione sindacale dichiara uno sciopero in violazione dell’accordo, cioè su materie da esso già regolate, la FIAT può legittimamente sospendere l’applicazione di altri accordi aziendali, in materia di permessi sindacali, come una sorta di clausola penale liberamente prevista dalle parti, poiché tale sciopero integra una flagrante violazione degli impegni pattizi assunti. Per quanto concerne i singoli lavoratori, sarà invece il non rispetto delle norme contrattuali ad integrare la fattispecie disciplinare, ad esempio il rifiuto a prestare lavoro straordinario nelle quantità e modalità previste.
E’ invece incontestabile che l’accordo di Pomigliano modifica il Contratto nazionale di categoria in almeno 2 punti. Aumenta da 40 a 120 le ore di straordinario “comandabili”, cioè disposte senza previa comunicazione alle RSU (ma invece non supera il tetto complessivo di 200 ore straordinarie implementabili a valle della comunicazione stessa); e, soprattutto, prevede in determinate circostanze la possibilità per l’azienda di disapplicare parte dell’articolo contrattuale che dispone a carico dell’azienda l’integrazione del trattamento di malattia INPS fino al 100% della retribuzione netta.
Ora, da un punto di vista sostanziale, una modifica del CCNL concordata dalle stesse parti che l’hanno sottoscritto è perfettamente legittima. In questo caso, data la rilevanza della FIAT, al tavolo aziendale erano presenti le segreterie nazionali di FIM e UILM che dunque ben potevano disporre del contratto nazionale, loro specifica riserva negoziale. E’ ben vero che da parte imprenditoriale mancava la controparte istituzionale, Federmeccanica; ma essa non ha avuto ovviamente alcun motivo di doglianza ed ha esplicitamente validato, per così dire, l’accordo aziendale. Quanto alla FIOM, come è noto essa non ha sottoscritto l’ultimo contratto nazionale metalmeccanico, e dunque non può contestarne la violazione. Quest’ultimo aspetto merita un’ulteriore riflessione.
La FIOM non ha firmato 3 degli ultimi 4 contratti nazionali, eppure questo fatto se ha avuto indiscutibilmente un notevole rilievo “politico”, non ha determinato significative ricadute sul piano degli assetti negoziali e delle relazioni industriali del settore metalmeccanico, consentendo alla FIOM stessa, da un lato, di sentirsi libera dagli impegni che la sottoscrizione del contratto nazionale comporta, quantomeno sul piano dei rapporti tra le parti, dall’altro però di continuare a presentarsi come normale (ed autorevole, viste le dimensioni) agente negoziale all’interno del sistema sindacale metalmeccanico. L’ accordo di Pomigliano, e questo è ai miei occhi uno dei suoi meriti principali, mette a nudo questa contraddizione latente. L’ubi consistam di un sindacato è fare accordi, in primis l’architrave di ogni accordo, il contratto nazionale; la non sottoscrizione di intese non condivise è ovviamente pienamente legittima, laddove però il sindacato con i propri tipici strumenti riesca ad imporne altre e, dal suo punto di vista, migliori . Se non vi riesce, per un evidente difetto di forza rappresentativa, deve, per conservare la sua ragion d’essere e per la natura stessa dell’organizzazione sindacale, accettare compromessi.
In poche parole, un partito o un movimento politico può definirsi come “opposizione”, e ivi rimanere, un sindacato no, altrimenti rinuncia alla rappresentanza materiale dei lavoratori, cioè al suo essere sindacato. Non è un caso che a Pomigliano la FIOM abbia gridato alla violazione della Costituzione, argomento buono per avvocati e magistrati, cercando così di evitare di confrontarsi con la nuda realtà di un sindacato che, non avendo sottoscritto il contratto nazionale, non può legittimamente dolersi né di modifiche ma neppure di eventuali violazioni, venendo quindi meno all’ essenziale funzione di tutela dei propri iscritti.
Credo che l’intero sistema delle relazioni industriali in ambito metalmeccanico debba pervenire ad un chiarimento su questo punto. Anche Federmeccanica nei suoi rapporti con la FIOM non può continuare a seguire una linea di business as usual: se quest’ultima non accetta il vigente contratto nazionale si pone fuori dall’intero sistema negoziale, del resto interamente regolato dal contratto stesso, a cominciare dalla contrattazione di 2^ livello.
Un’altra cosa va detta sia in relazione alla vicenda di Pomigliano , sia in ordine ai problemi di rappresentatività ed applicabilità degli accordi sindacali: non è il referendum lo strumento che li possa risolvere e decidere.
Pensare di chiedere sistematicamente una validazione referendaria degli accordi sindacali significa di nuovo ignorare la specificità della materia sindacale rispetto ad esempio alla rappresentanza politica. Dichiarare nullo un accordo se per ipotesi il 51% dei lavoratori chiamati al voto lo rigetta, non è la stessa cosa che abrogare una legge per farne un’altra. Se un accordo viene respinto possono venir colpiti interessi primari e vitali di tanti lavoratori che non è giusto vengano lasciati in balia di maggioranze estemporanee; abrogato un accordo non se ne fa semplicemente ed automaticamente un altro, perché c’è un terzo soggetto, la controparte imprenditoriale, che può legittimamente rifiutarsi, prendendo altre decisioni, come la FIAT a Pomigliano. Per questo la rappresentanza sindacale non può definirsi solo in via aritmetico-quantitativa; un sindacato è rappresentativo solo se riesce a dare effettività alla sua rappresentatività astratta, e dunque, se non vuole spettralmente consegnarsi ad una rappresentanza solo negativa, tale effettività deve perseguire.
Un esempio concreto aiuta la comprensione di queste diverse dinamiche. In Germania, l’IGM prevede nel suo statuto il ricorso al referendum sia per proclamare lo sciopero, sia per validare accordi raggiunti. Qui il punto non è tanto se il ricorso al voto debba essere una scelta autonoma dell’ organizzazione sindacale o non piuttosto una norma di carattere generale, quanto le caratteristiche del voto stesso. Lo statuto dell’IGM, e di gran parte dei sindacati tedeschi, prevede che l’inizio delle azioni di autotutela a sostegno di una vertenza debba essere approvato da almeno il 75% degli iscritti; mentre per ratificare un contratto basta il 25%. Questa apparente violazione delle regole democratiche ha invece una profonda ragion d’essere che attiene agli interessi dei lavoratori in gioco. Poiché lo sciopero è una misura traumatica che richiede specifici sacrifici da parte dei lavoratori, sacrifici seri che coinvolgono valori e beni primari per il singolo lavoratore, non basta una maggioranza aritmetica, ma occorre che si manifesti una determinazione rafforzata che, da un lato dia effettività all’astratta volontà di scioperare, e dall’altro possa prevalere sugli interessi dei lavoratori dissenzienti. Lo stesso vale per la situazione speculare: un accordo raggiunto è un precario e sofferto contemperamento di interessi contrastanti, per rimetterlo in discussione ed affrontare probabilmente un incerto e faticoso conflitto è necessaria una volontà compatta e determinata, ben oltre i confini del 51%; cosicché l’accettazione di una buona minoranza basta al sindacato per valutare sufficiente il compromesso raggiunto.
L’istituzione in Italia di una qualche norma di carattere generale che equipari gli accordi sindacali alle leggi (o ai regolamenti condominiali) sarebbe la dimostrazione di un grave deperimento della cultura delle relazioni industriali e della loro specificità. Questo senza neppur voler entrare nel tema complementare ed importantissimo della mutazione genetica di contratti di diritto privato in norme corporative.
Ma l’accordo di Pomigliano parla anche al mondo delle imprese. Esso ha avuto la capacità di portare al centro del pubblico dibattito il tema della produttività molto più di quanto non abbia fatto l’accordo interconfederale sugli assetti contrattuali, e non solo per l’obiettiva rilevanza della FIAT e di Pomigliano.
Infatti il primo regola una peculiare situazione aziendale e trova risposte concrete a problemi concreti partendo dalle esigenze di mercato, di organizzazione del lavoro, di efficienza che la FIAT ha. Le soluzioni trovate non pretendono di applicarsi a tutto l’universo industriale italiano ma sollecitano il sistema sindacale, anche e soprattutto imprenditoriale, metalmeccanico a porsi gli stessi problemi ed a verificare se e quali risposte di carattere generale possono essere date. Il vigente assetto interconfederale fa esattamente l’opposto: stabilisce verticisticamente ruoli e funzioni dei diversi livelli di contrattazione, attribuendo al contratto nazionale in via esclusiva il compito di decidere se e quali materie (ed in buona parte anche in che modo) possano essere trattate in sede aziendale. E’ chiaro che in tal modo si può cercare di limitare i rischi e le turbolenze che la libera contrattazione porta con sé; certo non la si valorizza come un fattore di sviluppo e di miglioramento dei fattori di produzione.
C’è da dire, in conclusione, che una tale malcelata sfiducia nelle relazioni industriali trova purtroppo nella realtà odierna molte giustificazioni.
di Pietro De Biasi, direttore relazioni industriali dell’Ilva