Dove vanno le relazioni industriali? La domanda non è retorica, perché in questi mesi, in queste settimane, sta cambiando radicalmente l’asse del modo di contrattare che ci portiamo dietro da quarant’anni. E’ evidente che ci stiamo muovendo, ma non è per nulla evidente dove rischiamo di approdare. L’accordo del gennaio del 2009 sulla contrattazione, quello contestato dalla Cgil, non sembrava a prima vista capace di spostare più di tanto l’asse della contrattazione. Lo ha provato il fatto che, nonostante la mancata firma da parte di Guglielmo Epifani, la sua confederazione ha firmato ben quaranta nuovi contratti collettivi, tutti i più importanti fatta eccezione per i metalmeccanici della Fiom, motivati però da intenti più politici che sindacali.
E invece adesso le cose si stanno muovendo vorticosamente. Per colpa, merito dirà qualcuno, di Marchionne, certamente. Ma tutto discende sempre da quell’accordo. Senza quell’intesa nemmeno la Fiat sarebbe stata in grado di spostare l’ago della bilancia delle relazioni industriali. Perché la cosa più evidente che sta succedendo è che lentamente, ma inesorabilmente la contrattazione di secondo livello sta soppiantando quella nazionale. Ed era proprio questo il contenuto principale, l’ingrediente più forte dell’intesa del 2009, lo spostamento di pesi tra i due livelli di contrattazione. Del resto, erano dieci anni che si tentava di realizzare questo passaggio, da quando cioe’ la commissione Giugni lo decretò alla fine del 1998, dopo essere stato incaricato di verificare pregi e difetti dell’accordo del 1993 e suggerirne modifiche.
Dopo molti anni l’intesa del 2009 aveva sancito quel principio, ma con grande timidezza, senza sbandierarlo. I presupposti per il cambiamento però c’erano tutti e infatti quando la Fiat ha rotto gli indugi e ha chiesto di poter contrattare nuove regole per Pomigliano, ciò è stato possibile perché in quell’accordo c’erano i presupposti per farlo.
Ma adesso cosa succederà? Il contratto nazionale perderà progressivamente forza? E questo alla fine sarà un bene o un male? Le opinioni divergono. E’ evidente che trattando in azienda l’organizzazione del lavoro è più facile aggiustare i sistemi di produzione e trovare incrementi di produttività, quindi di competitività. E dato che proprio il deficit di produttività e competitività è la causa dei nostri problemi di sviluppo, questo nuovo corso di trattative in azienda dovrebbe essere ben accetto. Ma è anche vero che il contratto nazionale si applica a tutti indistintamente, non solo alle aziende virtuose, anzi è per i dipendenti di quelle non virtuose che è importante avere delle regole forti di tutela. Certo non è facile rinunciare alla solidarietà, tratto caratteristico della nostra società.
E soprattutto che fine farà il sindacato confederale, quello che rappresentando tutti è riuscito sempre a dare a tutti qualcosa? Prevarranno le rappresentanze d’azienda, attente agli interessi e ai bisogni dei dipendenti della singola unità produttiva e poca attenzione ai bisogni degli altri? Questo non sarebbe certamente un vantaggio, per nessuno. Senza i grandi sindacati confederali che hanno contribuito in maniera così rilevante ed evidente alla crescita, economica e democratica del paese, che ci succederà? Potremmo farne a meno, soprattutto adesso che siamo di fronte a una crisi manifesta della politica?
E poi c’è da tener presente l’effetto domino. Se non reggono i sindacati confederali non regge nemmeno la rappresentanza imprenditoriale. E se Confindustria, ma anche le organizzazioni di commercianti, artigiani e via dicendo, cadono, quale effetto ne verrebbe per la stabilità dell’economia? Sindacati dei lavoratori e grandi organizzazioni imprenditoriali, anche a non voler ricordare le supplenze dei primi anni novanta, sono sempre stati equilibratori della nostra società. Senza forse tutto sarebbe più difficile.
Massimo Mascini
17 Settembre 2010