Potremmo chiamarli gli apprendisti stregoni. Perché hanno messo in moto un meccanismo che gli si è poi rivoltato contro. Sono i dirigenti della sinistra della Cgil, gli stessi che adesso devono ingoiare, oltre alla sconfitta ai referendum alla Fiat, anche l’esclusione dagli organi di rappresentanza negli stabilimenti del gruppo torinese.
La storia è poco nota, e anche per questo vale la pena di ripercorrerla. Lo statuto dei lavoratori aveva previsto nel 1970 che delle rappresentanze sindacali sui posti di lavoro facessero parte delegati eletti nelle liste presentate da sindacati associati alle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative o da altri sindacati purché firmatari di accordi nazionali o provinciali. Nel 1995 gli elettori furono chiamati a pronunciarsi su una serie di referendum, tra i quali quattro quesiti che interessavano da vicino il sindacato. Uno, presentato dai radicali, chiedeva l’abolizione della trattenuta automatica dei contributi dalle buste paga. Gli altri tre, presentati da Rifondazione comunista, Rete, Verdi e Cobas, si riferivano alle disposizioni dello Statuto sulle rappresentanze.
In particolare uno dei tre, il più drastico, prevedeva la totale libertà di presentazione di liste, il secondo la limitava ai sindacati firmatari di un contratto applicato in azienda, il terzo aboliva il potere del presidente del Consiglio di indicare quali erano i sindacati più rappresentativi ai fini della contrattazione nel pubblico impiego.
Andò malissimo per il sindacato, perché il sì prevalse per il referendum dei radicali e per il secondo e il terzo degli altri tre. Si salvò solo nel referendum che prevedeva la totale libertà nella presentazione delle liste, ma per un soffio: i no superarono i sì per soli 13mila voti su un totale di24,6 milioni di voti espressi. Perché il sindacato non era più di moda negli anni novanta, ma anche, e forse soprattutto, perché, a differenza di Cisl e Uil, la Cgil non aveva dato per questi due quesiti indicazioni di voto: si era astenuta, quasi non fosse interessata al risultato.
L’obiettivo di chi aveva presentato i referendum, ma anche della sinistra della Cgil che li aveva apertamente appoggiati, era sì il sindacalismo di destra, che si voleva annullare o almeno ostacolare, ma anche il concetto di sindacato maggiormente rappresentativo, e più in generale il sindacato istituzione, quello che dialoga con i governi, fa la concertazione, ha ruolo e si fa coinvolgere in una politica del lavoro attiva.
La sinistra della Cgil, e naturalmente la Fiom in prima linea, non aveva mai digerito l’accordo del 1993, che sicuramente seguiva quella linea di crescita del sindacato, e non esitò a dare un colpo con quel referendum che forse appariva come una scorciatoia per una rivincita rispetto alla sconfitta di due anni prima. Del resto era il 1995 e lo stesso anno la Fiom di Claudio Sabattini ruppe formalmente la tregua sancita nel 1993 affermando, in uno storico seminario a Maratea, la piena libertà salariale del sindacato. Ormai è finito il tempo delle politiche salariali basate sullo scambio, disse Sabattini, abbiamo rinunciato alla scala mobile, non accettiamo l’automatismo della redditività dell’azienda. Parole del segretario della Fiom, ma non contraddette, e quindi avallate da Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil, presente al seminario. E si spiega così il comportamento della confederazione nello svolgimento dei referendum, quando, per non entrare in rotta di collisione con la sinistra della Cgil e preferendo l’unità interna a quella con Cisl e Uil, scelse di non schierarsi, facendo perdere tutto il sindacato.
Adesso, dopo 16 anni, la sinistra della Cgil paga quel referendum, per colpa del quale è esclusa dalle Rsu della Fiat in quanto non firmataria di alcun contratto applicato negli stabilimenti del gruppo torinese. Si tuona molto su questa esclusione, ma forse un po’ di memoria storica non guasterebbe per far capire le dinamiche sociali. Del resto, la Fiom è adesso schierata a difendere l’accordo del 1993, considerata la linea del Piave: la stessa Fiom che votò contro quell’accordo e poi cercò in tutti i modi di boicottarne l’applicazione.
Di Massimo Mascini