Il dibattito sulla Fiat e sul futuro delle relazioni industriali non ha toccato a sufficienza, secondo il mio parere un punto importante, che riguarda il cambiamento di ruolo che il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) sarebbe destinato a subire se alcune proposte sul tappeto, come quella di Federmeccanica, andassero in porto. Alcuni hanno giustamente osservato che in questo caso il CCNL svolgerebbe alla fine un ruolo simile a quello che in altri ordinamenti viene svolto dall’istituto del “salario minimo”. E’ vero questo? E se è vero quali conseguenze pratiche si determinerebbero?
La differenza sostanziale tra il CCNL , così com’è oggi, e l’istituto del salario minimo (spesso fissato per legge) non sta tanto nel fatto che il “salario minimo” è poco differenziato, mentre i minimi tabellari dei CCNL sono tanti quanti sono i CCNL e tanti quanti sono i livelli di inquadramento. Vale dire che ci sono migliaia di minimi tabellari tra loro diversi. La differenza sostanziale non sta qui.
La differenza sostanziale sta negli effetti che vengono prodotti da un aumento del salario minimo, rispetto a quelli prodotti da un aumento dei minimi tabellari. L’aumento del salario minimo si riflette sui salari di coloro che sono pagati “al minimo” (o nei pressi del minimo). Tutti gli altri lavoratori, che godono di retribuzioni più elevate, non vengono beneficiati dall’aumento del salario minimo. Gli aumenti dei minimi tabellari invece, vanno a beneficio di tutti i lavoratori, anche se hanno retribuzioni di fatto maggiori degli stessi minimi tabellari.
La differenza sostanziale è questa: mentre l’istituto del “salario minimo” fissa un “LIVELLO” minimo delle retribuzioni, l’istituto dei minimi contrattuali ( che sono una componente della busta paga) viene utilizzato per definire un “AUMENTO” minimo di tutte le retribuzioni. La differenza non è di poco conto.
Di questa differenza si sono accorti i dirigenti dell’industria, quando , qualche anno fa, hanno visto sostituire l’istituto dei “minimi tabellari” con quello del “salario minimo”. Da allora l’aumento del salario minimo fissato negli accordi nazionali ha interessato una minoranza di dirigenti. Tutti gli altri – pagati sopra il minimo – non hanno ricevuto alcun beneficio da questi rinnovi. Si é trattato di un bel cambiamento, Forse giustificato per i dirigenti, la cui retribuzione deve essere legata ai risultati più che al costo della vita. Caso mai ci si deve chiedere come mai le nuove regole devono valere solo per i dirigenti dell’industria e non anche quelli degli altri settori.
La proposta di offrire un “menu” a scelta tra contratto aziendale e CCNL, o di una “sovra ordinazione” del contratto aziendale su quello nazionale, è destinata a portare , nel tempo, a una situazione in cui i lavoratori delle grandi imprese ( che si vedranno sostituire il contratto nazionale con quello aziendale) faranno “la fine” dei dirigenti industriali. Avranno certamente retribuzioni di fatto più elevate dei minimi tabellari dei CCNL di riferimento (come peraltro già succede ora), ma i loro livelli retributivi non saranno influenzati dai rinnovi dei CCNL. Questi rinnovi tra l’altro ( particolare non trascurabile) avverranno in un contesto assai diverso. I sindacati, infatti, potranno coinvolgere e mobilitare solo i lavoratori delle piccole aziende (quelle senza contratto aziendale) e non certo quelli delle grandi, che saranno abbastanza indifferenti ai risultati del negoziato nazionale.
E’ questo quello che si vuole? Ne sono consapevoli tutti coloro che parlano di queste proposte?
Ne è consapevole certamente Federmeccanica, che conosce molto bene le implicazioni e le conseguenze della proposta che ha fatto. D’altra parte non è nemmeno la prima volta che la fa. In passato questa proposta veniva avanzata in occasione dei rinnovi del CCNL. E veniva percepita come una provocazione da parte dei sindacati, una provocazione pronta peraltro ad essere ritirata non appena le trattative entravano nella fase conclusiva. Ora la proposta appare come qualche cosa di più di una semplice provocazione.
D’altra parte molti osservatori sostengono che vi siano buoni motivi per andare nella direzione di un maggiore decentramento del sistema di contrattazione collettiva. Alcuni di questi motivi sono stati ben illustrati da I. Cipolletta in un contributo apparso sull’ultimo numero della newsletter di ANL ( Associazione Nuovi Lavori). Dice Cipolletta : oggi il perimetro rilevante per le aziende è quello dei mercati di sbocco dei prodotti e non più il perimetro merceologico del settore di appartenenza. Quindi il contratto aziendale è più adatto, rispetto a quello settoriale, ad affrontare i veri problemi delle imprese. Inoltre con l’Euro non c’è più bisogno di politiche dei redditi e quindi un coordinamento della dinamica delle retribuzioni a livello nazionale ha perduto di importanza.
Sono motivi seri e fondati, anche se vi sarebbe un po’ da discutere soprattutto sul secondo punto. Il nostro Paese ha perso competitività di prezzo (con un forte aumento del CLUP) in questi ultimi dieci anni. In secondo luogo i rischi di inflazione non sono scomparsi e bastano anche pochi decimi di punto di differenza nel tasso di aumento dei costi e dei prezzi, per perdere ulteriore competitività. Il bisogno di un coordinamento nazionale della dinamica salariale potrebbe tornare ancora utile. Invece di avviare un processo di decentramento disorganizzato della contrattazione collettiva (del tipo di quello che esiste in Francia e nei Paesi anglosassoni), potrebbe essere utile mantenere un certo decentramento più “organizzato”.
In questa prospettiva non è proprio da buttare via il tipo di decentramento previsto nel recente Accordo Quadro del 2009, quando le parti sociali ( esclusa la CGIL) avevano introdotto l’istituto delle deroghe.
Con il sistema delle deroghe, che conferma il ruolo di “pivot” della contrattazione collettiva del CCNL, è forse possibile salvare “capre e cavoli” e cioè dare flessibilità alla contrattazione aziendale e mantenere un ruolo di “coordinamento organizzato” al livello nazionale.
Forse occorre andare “un po’ oltre” l’Accordo del 2009 prevedendo, come molti sostengono, un modello di CCNL più leggero, a “maglie larghe”, che permetta al sistema delle deroghe di funzionare in modo più flessibile, senza eccessive impalcature burocratiche che terrebbero alti i costi di transazione. Insomma andrebbe cercato un equilibrio (un po’) più avanzato nella direzione del decentramento, un equilibrio tra le ragioni della flessibilità aziendale e le ragioni del coordinamento nazionale.
Un altro aspetto andrebbe probabilmente rivisto ( anche se lo ritengo difficile da attuare). Esso riguarda il meccanismi di determinazione degli aumenti dei minimi tabellari nazionali. Il meccanismo introdotto con l’Accordo Quadro del 2009 è di quasi- indicizzazione delle retribuzioni. La differenza tra inflazione effettiva e l’indicatore utilizzato (inflazione ragionevolmente prevista) per la rivalutazione dei minimi salariali, non è molto rilevante dal punto di vista economico. E a un attento esame il meccanismo potrebbe essere preso di mira dagli organi comunitari, soprattutto se si rafforzerà l’idea di imporre a tutti gli Stati membri comportamenti virtuosi nei meccanismi di determinazione delle dinamiche retributive.
La proposta che venne avanzata durante le trattative dell’Accordo del 2009 e che consisteva nell’ indicizzare solo parte dei salari minimi nazionali, non venne recepita nel testo finale. I sindacati firmatari erano alla fine contrari a questa proposta. Ma probabilmente era la strada virtuosa da seguire, se si voleva dare più spazio alla contrattazione aziendale e se si voleva al contempo evitare una indicizzazione che poteva causare problemi in sede comunitaria.
Avevo fatto una proposta su questo punto ( Diario del Lavoro ,2009). Essa consisteva in una combinazione tra una quota minore di salario nazionale indicizzato e una quota maggiore di Elemento di Garanzia da distribuire ex-post ai lavoratori privi di contrattazione aziendale. Una soluzione del genere avrebbe alla fine lasciato più spazio sia alla contrattazione aziendale, sia alla capacità di coordinamento del livello nazionale nel determinare la dinamica complessiva delle retribuzioni.
di Carlo Dell’Aringa, professore di Economia politica all’Univarsità Cattolica del Sacro Cuore di Milano