Si muove qualcosa sul fronte della partecipazione dei lavoratori? Dopo una fase di stasi se non di abbandono di questo antico filone, esso sembra tornato nell’agenda dei policy makers.
Cerchiamo di capire le ragioni di questo revival e se davvero si possano materializzare delle opportunità più concrete che in passato.
Lo stato dell’arte che si presentava all’osservatore negli ultimi anni si condensava in una specie di lento declino della capacità di attrazione di questo tema: esso trova le sue radici profonde e lontane nelle culture del movimento sindacale (ma anche dei partiti di sinistra) che coltivavano l’aspirazione al controllo operaio e alla democrazia industriale.
Le esperienze non sono mancate nel nostro paese, e negli ultimi quaranta anni sono state affidate al motore della contrattazione: prima quella nazionale, mediante le previsioni relative ai diritti di informazione e consultazione, e successivamente a quella aziendale, attraverso la fioritura di commissioni paritetiche variamente declinate.
Si è trattato di esperienze anche interessanti, ma concentrate in prevalenza in un piccolo nucleo di aziende medie e grandi. A causa di varie resistenze non è mai decollata una ‘seconda legislazione di sostegno’, proposta dai giuristi del lavoro, in sintonia con le innovazioni normative conseguite già da tempo in alcuni paesi, come la Germania e la Svezia.
Nel periodo più recente l’idea della generalizzazione di meccanismi di partecipazione dei lavoratori si è andata affievolendo.
E’ mancata una sponda politica capace di cogliere le opportunità derivanti dalla riforma della governance societaria, e più in generale la volontà politica di misurarsi con questa tema. E’ stato riaffermato lo scetticismo se non l’ostilità delle associazioni datoriali, anche se alcune aziende hanno alimentato pur con attenzioni discontinue gli organi di partecipazione. Sono restate differenziate le posizioni della Confederazioni sindacali sui modelli da seguire, e soprattutto è andata scemando l’importanza della partecipazione nelle loro priorità.
Allora come è possibile rimettere in moto questo quadro stagnante?
I dati nuovi sono di due tipi.
Il primo consiste nella consapevolezza diffusa che strumenti di partecipazione, non solo a decisioni organizzative ma anche a scelte di portata più ampia, diventano ancora più necessari di fronte alle sfide poste dalla globalizzazione delle imprese. Molti osservatori hanno rilevato che se in nostro sistema avesse posseduto meccanismi (legali) incisivi questo avrebbe consentito di temperare l’asimmetria tra le parti che si è evidenziata con chiarezza nelle recenti vicende Fiat. Non sono pochi quanti sottolineano che gli indirizzi strategici preannunciati da Marchionne, in mancanza di adeguati contrappesi, restano ancora vaghi o indeterminati. Diventa quasi ovvia la comparazione con le legislazioni nazionali – come quella tedesca – che prevedono canali per l’accesso di rappresentanze dei lavoratori al nocciolo del processo di decisioni strategiche delle imprese.
Il secondo aspetto nuovo è invece dato dalla presenza in Parlamento di numerosi progetti di legge, qualcuno anche bypartisan, che aspirano a regolare questa materia. Le possibilità di condurli in porto sono modeste, in quanto l’attuale governo esibisce un netto orientamento verso l’astensionismo legislativo sulle relazioni industriali. Salvo immaginare interventi riguardanti la partecipazione agli utili: forse necessari, certo distanti dalla richiesta di forme di partecipazione più incisiva intorno ad oggetti qualificanti. Quindi questi testi di legge sono da considerare come un segnale della rilevanza potenziale della questione della democrazia nei luoghi di lavoro. Essi prospettano dei possibili avanzamenti, ma non sono tra loro equivalenti. Qui varrà la pena di tracciare una frontiera, che può essere utile analiticamente. Troviamo progetti che infatti si limitano ad aprire un menù di possibilità all’interno della varietà delle forme partecipative, adottate o adottabili. Più che una vera innovazione essi propongono una fotografia della realtà, non disprezzabile ma inadeguata. Il difetto italiano è consistito – sotto la copertura dell’ombrello contrattuale – in una vasta latitudine di esperienze applicative dentro una sorta di accentuata aziendalizzazione. Dobbiamo constatare che i risultati conseguita per questa via sono stati modesti e che quindi sarebbe più importante trovare un quadro comune di riferimento. In questa direzione si muovono altri progetti (presentati soprattutto dal Partito democratico), che cercano di promuovere la generalizzazione degli strumenti di partecipazione provando a contaminare in direzione di una sintesi più originale i diversi approcci (e culture) preesistenti. Così dentro questo tracciato troviamo la istituzionalizzazione dei diritti di informazione nelle imprese che occupano più di trentacinque dipendenti. Ma anche la previsione di partecipazione delle rappresentanze dei lavoratori, nella misura di una quota non inferiore a un quinto e non superiore alla metà dei componenti, ai consigli di sorveglianza: quel classico organismo attivato in presenza di società per azioni duali (basate alla tedesca su un organo esecutivo e su un organo di controllo). Il consiglio di sorveglianza viene istituito, secondo questa impostazione nelle imprese esercitate in forma di società per azioni o costituite in forma di Società europea con più di trecento dipendenti: quando non è previsto il Consiglio di sorveglianza deve essere comunque istituito un altro organo, che è denominato ‘comitato consultivo‘. che esprime pareri – preventivi e non vincolanti – intorno alle relazioni che illustrano i principali orientamenti strategici delle società interessate. Inoltre viene prevista l’istituzione di piani di azionariato dei dipendenti. Qui va notato, oltre che la scelta di adesione ai piani ha carattere individuale e volontario, che la partecipazione azionaria trova fondamento in scelte operate dalle organizzazioni sindacali (dalle Rsu o dalle associazioni territoriali di categoria) e non in elargizioni da parte dei datori o in scelte affidate solo ai singoli. Inoltre – aspetto importante che rende più chiara la finalizzazione – essa dà la possibilità di nominare rappresentanti all’interno dei consigli di sorveglianza. I due torrenti del nostro dibattito confluiscono – dentro questo disegno – dunque in un fiume più grande.
Un pacchetto di ipotesi di lavoro che richiede in primo luogo accordi tra le parti e successivamente interventi legislativi mirati in grado di assicurare quell’allargamento di concreti strumenti di accesso che in passato non è stato mai conseguito.
Non basta dunque la retorica della partecipazione, per sfortuna assai più diffusa delle buone prassi. Come hanno scritto nei giorni scorsi Baretta e Damiano (tra i presentatori in Parlamento di alcuni dei disegni di legge sopra ricordati) non “basterà essere meno conflittuali e più collaborativi. Serve un salto deciso verso la partecipazione”: cioè verso meccanismi e organi che consentano di dare voce ai lavoratori e ai loro rappresentanti intorno alle questioni vitali per il futuro delle imprese.
Non è chiaro se le novità sopra ricordate siano in grado di provocare un salto di qualità nel dibattito e nei suoi esiti pratici.
Restano aperti diversi interrogativi.
In primo luogo la dichiarata tiepidezza, se non avversione, delle associazioni imprenditoriali. Che potrebbe essere, almeno parzialmente, neutralizzata immaginando meccanismi differenti e meno costrittivi per le imprese minori.
E poi soprattutto le divisioni sindacali, che in passato sono state forti su questo tema (dove forse si sono attenuate), ma che ora appaiono laceranti su nodi anche più generali. In realtà, come dimostrano le proposte sopra richiamate, esistono dei margini per compromessi di alto profilo, che come è accaduto in passato, soddisfino con successo le diverse tradizioni sindacali. Questa ipotesi – che potrebbe essere stimolata dalla ‘buona’ politica – si può tradurre in una sintesi tra le istanze più attente al controllo sulle decisioni strategiche e le opzioni più sensibili alla proiezione azionaria degli interessi dei lavoratori. Con moventi diversi queste due letture aspirano alla crescita di influenza decisionale a vantaggio del mondo del lavoro: non è quindi impensabile immaginare una loro conciliazione dinamica.
E’ questo uno scenario innovativo abbastanza diverso da quello che avevano in mente i padri costituenti. Per questo sarebbe forse preferibile che il legislatore prossimo venturo non scomodasse l’art. 46 della Costituzione.
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