Come avvertiva più di dieci anni fa Marco Biagi, “la competizione globale impone stili di relazioni industriali che sempre più prescindono dai contesti nazionali. Le multinazionali, o comunque le imprese che competono con tutto il mondo, devono reagire alle sfide anche superando vincoli imposte da regole locali”.
E’ evidente, infatti, che le grandi aziende operano su un piano diverso rispetto a tutte le altre. Per forza di cose, le prime, come la Fiat, sono maggiormente proiettate sui mercati internazionali, hanno in genere sedi, stabilimenti e dipendenti all’estero e hanno dunque bisogno di maggiore governabilità.
Le altre, e cioè le piccole imprese, sono invece per lo più radicate sul territorio e occupano pochi dipendenti nell’unica sede aziendale.
Allo stesso modo, mentre nelle prime c’è di regola una stabile rappresentanza sindacale, nelle seconde il sindacato è spesso assente perché i lavoratori dell’azienda non ne sentono il bisogno. Si sentono protetti dal contratto collettivo nazionale e, se hanno bisogno di qualcosa, trattano direttamente con l’imprenditore. In altre parole, come ha dimostrato la crisi, si sentono “tutti sulla stessa barca”.
Ebbene, nonostante queste importanti differenze e i moniti di Marco Biagi, da venti anni, nel nostro paese, le aziende grandi e piccole, e i loro dipendenti, sono costretti a sottostare allo stesso, complesso regime contrattuale, fatto di due livelli, nazionale e aziendale o territoriale, nel quale il più piccolo, quando c’è, fa solo quello che gli dice il più grande nelle materie da quest’ultimo delegate.
E così, per un verso, il contratto collettivo nazionale non è riuscito a proteggere il potere di acquisto dei lavoratori che si sono progressivamente impoveriti perché la competenza in tema di retribuzione variabile era del contratto collettivo aziendale. Per altro verso, quest’ultimo non si è mai diffuso perché tutte le materie collegate alla produttività del lavoro sono disciplinate dal Ccnl e quindi, non essendoci aumenti di produttività, non c’erano risorse per la retribuzione incentivante.
Ma, di recente, i nodi sono venuti al pettine: il caso di Mirafiori, come quello di Pomigliano, hanno messo in evidenza l’inadeguatezza del nostro sistema di relazioni industriali e imposto di correre ai ripari.
In questa situazione, non deve quindi destare stupore la proposta di Federmeccanica di introdurre l’alternatività tra contratti collettivi di diverso livello.
Ciò in quanto, a ben vedere, per assicurare adeguata tutela ai lavoratori, non servono due contratti collettivi ma ne basta uno purché sviluppi a pieno le proprie potenzialità e purché sia sottoscritto da un sindacato effettivamente rappresentativo.
In questa prospettiva, per evitare sovrapposizioni, le parti sociali che, dopo la vicenda Fiat, sono chiamate a riformare le relazioni industriali, potrebbero limitare la possibilità del contratto collettivo aziendale di sostituire la disciplina di quello nazionale alle imprese con più di 500 dipendenti nelle quali sono state elette rappresentanze sindacali aziendali.
Così, il contratto collettivo nazionale potrebbe continuare a tutelare i milioni di lavoratori delle piccole aziende che non possono sottoscrivere un contratto di secondo livello, continuando ad assicurare una disciplina di default che tuteli tutti lavoratori su tutto il territorio nazionale.
Nelle grandi aziende, più esposte alla competizione internazionale, il contratto collettivo aziendale potrebbe invece sostituire, anche interamente, quello nazionale consentendo agli imprenditori e alle rappresentanze sindacali di ricercare nuovi e più avanzati punti di incontro in tema di salario, orario di lavoro, partecipazione dei lavoratori agli utili delle aziende, premi di produttività e via dicendo.
In questo modo, sia il contratto collettivo nazionale sia il contratto collettivo aziendale potrebbero sviluppare a pieno le proprie potenzialità e ricercare nuovi e più avanzati punti di incontro per aumentare la produttività e, con essa, le retribuzioni.
Michele Martone