Sul futuro delle relazioni industriali e sulle sue ricadute all’interno delle aziende, i manager intervistati fanno previsioni non proprio ottimistiche. Soprattutto prevedono un futuro che non è proprio in linea con i cambiamenti che essi stessi auspicano. E’ questa l’impressione principale che si ricava dalle risposte al questionario. Non si prevede infatti un miglioramento del clima sociale e del conflitto sindacale; non c’è poi molto da sperare in un ricompattamento delle tre grandi sigle nazionali, e la CGIL rimarrà molto probabilmente sulle barricate. Insomma tutto il contrario di quello di cui ci sarebbe bisogno. Questo scenario, un po’ nero, avrà un impatto negativo sulle stesse aziende. Questa è la conclusione.
Occorrerebbe invece il contrario e cioè : un atteggiamento collaborativo, una efficiente contrattazione e un’unità, almeno di azione, dei grandi sindacati. Insomma, la speranza non muore, ma la ragione dice di no : la stagione del conflitto , delle divergenze , della confusione continuerà e tutto ciò avrà effetti negativi sulle capacità delle imprese di riprendersi da un crisi che gli stessi intervistati giudicano ancora ben lontana dall’essersi risolta.
Che fare allora ? La prima risposta è: i manager dovranno riappropriarsi, ancor di più di quanto non abbiano sinora fatto , delle loro prerogative manageriali. Questa è la prima reazione: “aiutati che il ciel t’aiuta”. Se i sindacati non vorranno assumersi le loro responsabilità in modo unitario, le aziende dovranno farsene una ragione e, al limite, riconsiderare il loro ruolo delle relazioni sindacali.
Si chiede poi aiuto all’autorità pubblica. Se i sindacati non riescono a risolvere i loro problemi, il Governo e il parlamento dovrebbero aiutarli. Come? Innanzitutto con una legge sulla rappresentanza ( il 68 per cento la invoca) che dia certezza agli accordi sottoscritti e che li renda esigibili all’interno delle imprese.
Questa richiesta non va certamente nella direzione voluta dai sindacati che fino ad oggi si sono dimostrati molto comprensivi delle richieste aziendali ( leggi : Fiat) e che hanno dimostrato, non solo a parole, che sono disposti ad andare incontro alle esigenze di flessibilità delle aziende che devono affrontare una competitività internazionale che, con la crisi, è persino aumentata. La richiesta di una legge sembra andare incontro più alle esigenze della Cgil, che invece , sinora, non ha certo manifestato un atteggiamento collaborativo nella vicenda Fiat. Per le aziende si tratta di assumere posizioni che siano coerenti con il quadro di alleanze che intendono sviluppare. Non c’è dubbio comunque che un accordo (non una legge!) sulla rappresentatività sarebbe un segnale forte per un possibile avvicinamento tra le tre centrali sindacali. Un avvicinamento in cui gli stessi manager, peraltro, dicono di credere poco.
La stragrande maggioranza dei manager, inoltre, considera importante le revisione dell’art. 18 al fine di meglio graduare le tutele nel mercato del lavoro e avvicinare il grado di flessibilità dei lavori a termine a quello, tuttora molto limitato, dei lavori a tempo indeterminato. E questa è un’altra bomba! Se si volesse riaprire la questione dell’art. 18, assisteremmo ad un ulteriore inasprimento del conflitto sindacale. E sarebbe la Cgil, questa volta, a guidare la rivolta. Ma probabilmente quello dei manager è solo un parere che, se anche fosse molto diffuso nel mondo imprenditoriale, non è detto che porti le associazioni industriali a ripercorrere una strada che si è dimostrata tanto impervia e pericolosa in passato.
Vi è poi un terzo incomodo, il Governo, che considerati i già numerosi problemi della macchina giudiziaria, non sembra proprio nella vena di emanare nuove norme che possano aumentare il contenzioso e rafforzare ulteriormente il ruolo della giurisprudenza nelle relazioni di lavoro che si svolgono all’interno delle aziende. Di problemi di questo tipo ne esistono già molti e aggiungere nuova carne al fuoco non sembra il caso. Così, presumo, ragiona il Governo. E, a questo punto rimane solo da sperare nel buon senso delle varie parti sociali. Sia nel campo della rappresentatività, sia nel campo delle nuove regole del mercato del lavoro.
I manager non hanno comunque perso completamente la fiducia nelle relazioni industriali e vedono anzi nuovi possibili campi di attività da coltivare. Non certo nel campo della partecipazione ! I “fans” della partecipazione, infatti, non saranno molto incoraggiati dalle risposte date al questionario. Le attuali pratiche partecipative, dicono gli intervistati (che ricordiamo sono soprattutto di imprese multinazionali localizzate nel nord-ovest, quindi la “crema” della nostra industria), non vanno molto oltre la informazione e la partecipazione. La prospettiva di andare nella direzione “tedesca” (presenza di rappresentanti dei lavoratori nei consigli di sorveglianza) oppure nella direzione “americana” ( un “business union” con eventuale azionariato dei lavoratori) viene bocciata quasi all’unanimità degli intervistati.
I manager italiani vogliono mantenere il modello italiano delle relazioni industriali, basato essenzialmente sulla contrattazione collettiva, una contrattazione che deve perdere il residuo carattere ideologico e antagonista. Caso mai va allargato il perimetro di questa contrattazione, verso contenuti nuovi, come il “welfare” aziendale. Le risposte al questionario su questo tema sono chiare: sviluppare la previdenza complementare e la assistenza sanitaria è una priorità. Anche consorzi di imprese per organizzare asili nido, vanno bene. Sono tutti strumenti per integrare ancor più i lavoratori nell’azienda e per spostare ( ma non troppo) il baricentro della contrattazione in azienda.
Spostare in azienda, “ma non troppo”. I manager credono ancora nel ruolo di coordinamento degli accordi nazionali, soprattutto di quelli conclusi a livello confederale : danno stabilità al sistema. Insomma non si vuole buttare via niente. Peccato che i sindacati rischino di rovinare tutto. Questo è il pensiero, non tanto nascosto, dei manager dell’industria italiana.
di Carlo Dell’Aringa, professoredi Economia politica all’Università Cattolica di Milano