La crisi non è finita, durerà ancora e gli effetti sul clima sociale saranno ancora forti. Il sindacato vivrà un nuovo calo di iscritti, ma Cgil, Cisl e Uil non finiranno di litigare, anzi il processo di allontanamento in atto si accentuerà. La contrattazione resta sempre il pilastro delle relazioni industriali, quella interconfederale che dà un quadro di certezze, e quelle nazionali e aziendali, che devono diventare davvero tra loro complementari. Cresceranno previdenza e sanità integrative, mentre la partecipazione, che non c’è, non ci sarà nemmeno in futuro, fatta salva qualche forma di partecipazione agli utili. Infine, l’articolo 18: se lo eliminano o ne attenuano la portata, migliora anche la flessibilità in entrata.
E’ questo il pensiero tipo, certo ridotto in pillole, del capo del personale, figura centrale nelle relazioni industriali, ma finora tenuta ai margini del dibattito sul futuro delle relazioni industriali che pure sta andando avanti da anni tra seminari, convegni, tavole rotonde. Un vuoto evidente, che adesso è stato riempito da un’inchiesta svolta da Gidp, un’associazione di direttori del personale. 151 dirigenti hanno risposto a un lungo questionario dando un quadro preciso di cosa pensano gli uomini in prima linea in fabbrica a far nascere nei fatti le nuove relazioni industriali.
Ma vediamo nei particolari cosa pensano questi manager. La prima cosa è la crisi. Ne siamo usciti solo in parte, pensa il 54%, e più del 40% crede invece che ne siamo ancora dentro e che si andrà avanti così ancora per un paio d’anni e che di conseguenza i risvolti sul clima sociali e sui rapporti di lavoro saranno duri. Una cosa positiva però, la crisi ha portato: lavoratori e sindacati, pensa quasi l’80% degli intervistati, capiscono adesso che il successo e l’efficienza delle aziende è un obiettivo comune e forse sono in grado di comportarsi in maniera diversa dal passato. L’86% degli intervistati ritiene però che debba crescere il clima di collaborazione tra impresa e lavoratori.
Del futuro del sindacato i capi del personale non pensano nulla di buono. Nei prossimi anni il tasso di sindacalizzazione scenderà, il 30% pensa anche fino al 25%, qualcuno ipotizza perfino il 22%, ma soprattutto la gran parte non crede che cesserà la divergenza tra le confederazioni. In un recupero dell’unità sindacale non ci crede praticamente nessuno, ma moltissimi lo reputano un peccato: il 77% infatti crede che un ritorno all’unità aiuterebbe molto a ricomporre le relazioni industriali. La grande maggioranza, quasi il 70%, pensa che Cisl e Uil se ne andranno per conto loro e solo una parte di questi, il 31%, crede che ci sarà una scissione dentro il maggior sindacato, tra gli antagonisti più arrabbiati e il resto della confederazione che si avvicinerà a Cisl e Uil. Sul futuro di Ugl, Sal, Cobas nessuno scommette, semmai è più verosimile, e ci crede la metà degli intervistati, che abbiano un futuro in azienda dei sindacati professionali.
Insomma, la via sembra segnata ai capi del personale, gli arrabbiati da una parte senza sentir ragione, Cisl e Uil, forse con un pezzo di Cgil, a cercare relazioni industriali non antagoniste, che aiutino lo sviluppo.
Queste comunque, pensano i capi del personale, devono puntare sulla contrattazione, in primis quella interconfederale, perché, ritiene il 73% di loro, l’unica in grado di offrire un quadro di riferimento unitario, ma anche su quella nazionale, purché sia strettamente complementare a quella aziendale. Insomma, i manager sono ancora attaccati alla contrattazione di categoria e non prediligono la via aziendale della contrattazione. Per la rappresentanza però il 68% chiede una legge, l’unica, dicono, in grado di dare certezze.
Alla partecipazione non ci crede nessuno. Se si tratta di partecipazione agli utili, sì, è vista di buon occhio, ma guai a parlare di consigli di sorveglianza. I manager sono invece favorevoli a una quota di retribuzione individuale, sia nella parte variabile che in quella fissa. E non vogliono stravolgere il normale di venire della retribuzione: il 71% è contrario a una parabola diversa, che preveda una crescita e una discesa negli ultimi anni di lavoro.
Il futuro della contrattazione comunque è per i più legata allo sviluppo della previdenza e della sanità integrativa. L’88 nel primo caso, il 90% nel secondo non ha dubbi nel chiedere uno sviluppo in tal senso. E una percentuale uguale vede con favore le iniziative volte a sostituire i sostegni al reddito nei momenti di difficoltà con politiche dirette ad aiutare la ricerca di un nuovo lavoro. Per migliorare i rapporti all’interno delle aziende i capi del personale intervistati credono molto nelle mense e in asili nido, meglio se non interni all’azienda ma comuni con altre imprese, mentre hanno molto meno appeal le colonie estive, le palestre interne, gli sportelli bancari, anche se dentro l’azienda.
Infine, lo spinoso articolo 18, sul quale il mondo del lavoro si è diviso. L’82, 78%, in pratica quasi tutti, crede che superare questo articolo con forme di tutela analoghe a quelle esistenti per i dirigenti potrebbe migliorare il problema della flessibilità in uscita e una percentuale ancora superiore, l’82%, crede che questo porterebbe una notevole semplificazione del problema della flessibilità in entrata. Non lo dicono perché non glielo hanno chiesto, ma è evidente che i capi del personale sentono i due problemi, quella della flessibilità in entrata, troppo ampia, ma anche quella della flessibilità in uscita, praticamente inesistente. Muoversi in questa direzione aiuterebbe a risolvere i loro problemi.
Dai capi del personale pillole di saggezza
Vorrebbero un sindacato unito, una contrattazione più regolata, meno articolo 18 Di Massimo Mascini