Un’indagine del Gruppo intersettoriale direttori del personale, un’associazione che raduna i capi delle risorse umane delle aziende italiane, ha cercato di mettere a fuoco il pensiero dei manager su alcuni temi che caratterizzano le relazioni industriali. Il diario del lavoro ha approfondito con Alfredo Pasquali, assistente per le relazioni industriali del presidente di Confindustria Energia, alcuni argomenti toccati dalla ricerca del Gipd.
Dall’indagine emerge che i manager vedrebbero con favore la contrattazione nazionale complementare a quella integrativa: quindi sostanzialmente sarebbero favorevoli alla convivenza tra i due livelli. È così?
Sì, la maggioranza di loro ritiene che possano esistere due livelli. Ma dallo studio non emerge il peso da assegnare a ciascun livello. Negli anni la contrattazione integrativa ha guadagnato sempre più spazio, ma chi dice di voler allargare lo spazio della contrattazione di secondo livello sottintende in realtà il superamento del contratto nazionale.
Lei è d’accordo con questa impostazione?
Per me i due livelli devono essere integrativi, avere la stessa dignità, anche se possono avere pesi diversi, devono coesistere con forti legami tra loro come due vasi comunicanti. Io sono per la loro gestione sistemica e non credo che un livello debba superare l’altro.
La maggior parte dei manager pensano che sia necessario modificare l’articolo 18, sui licenziamenti individuali senza giusta causa. Lei crede che sia necessaria maggiore flessibilita’ in uscita?
La flessibilità dovrebbe essere a 360 gradi e dovrebbe avere un’accezione positiva e non essere un altro modo per chiamare la precarietà. Esistono tre livelli di flessibilità influenzati l’uno dall’altro: quella in entrata, per la quale s’intende il posto stabile e non fisso, quella durante il rapporto di lavoro, che equivale allo spostamento di mansioni e a oscillazioni del salario, e, infine, quella in uscita. Rispetto a quest’ultima bisognerebbe confrontarsi riaprendo il discorso sull’articolo 18, domandandosi se realmente questa legge sia necessaria per garantire la giusta tutela a coloro che hanno subito licenziamenti ingiusti.
Secondo i capi del personale nei prossimi anni il tasso di sindacalizzazione scenderà, lei concorda? E per quale motivo?
Si, il trend è leggermente decrescente. Ma è un fenomeno ormai diffuso, che non colpisce solo l’Italia ma anche il resto dei paesi occidentali.
Forse su questo trend pesa anche la mancanza di unità dei sindacati. Lei pensa che si potrà recuperare ?
L’unità sindacale ormai è più che altro un ricordo del passato. Non solo credo che non sarà possibile unificare il sindacato, ma anche ritrovare una linea unitaria. Può esserci però una ricomposizione sul modello unitario.
Ma cosa accadrà nel sindacato?
Le alternative sono poche, o si lascia fuori un sindacato, scelta molto pesante, oppure si decide che l’unità è un valore irrinunciabile e si trova una strada alternativa.
In che modo?
Cambiando gioco, partendo da altri meccanismi. Ad esempio, puntando sui valori e non più sulle regole.
Nessuno tra gli intervistati crede alla partecipazione. Come mai, secondo lei?
Se per partecipazione intendiamo condivisione degli utili d’impresa con i lavoratori e consigli di sorveglianza alla tedesca, è un termine spesso usato a sproposito, che rischia di diventare un’utopia. Servono, invece, responsabilità chiare. Se si vuol far partecipare i lavoratori sul serio, il modello esiste già: ci sono le cooperative.
L’86 per cento dei manager intervistati nell’indagine afferma che vorrebbe trattare solo con chi ha un atteggiamento collaborativo e non con chi propone il conflitto a oltranza. Non le sembra un po’ troppo comodo?
Storicamente il conflitto è stato superato. Oggi l’obiettivo del paese dovrebbe essere far aumentare la produttività, quindi il problema non è come ripartire la torta ma come far crescere quella che già c’è. La risposte dei manager a riguardo sono un segnale forte che non va sottovalutato, ma io credo che tutti i nostri interlocutori siano ugualmente degni di attenzione. Spesso, il conflitto non e’ colpa di una parte sola, ma di molte.
Francesca Romana Nesci