Si è svolto questa mattina a Villa Piccolomini a Roma un interessante seminario sui temi della partecipazione promosso dal nostro giornale. Vi hanno preso parte esponenti delle istituzioni, rappresentanti delle parti sociali, uomini di impresa che hanno portato il contributo delle loro esperienze. Un dibattito risultato molto interessante proprio perché il carattere seminariale dell’iniziativa ha consentito l’espressione di punti di vista non sempre coincidenti e proprio per questo più stimolanti.
Il seminario è stato aperto da un’interessante introduzione di Tiziano Treu, vicepresidente della Commissione lavoro del Senato, sulla storia della partecipazione, che ha ricordato come il dibattito in Italia vada avanti da cinque anni. Si fanno decreti legge, fino alla stesura di un Codice della partecipazione, ma, ha detto, tutto è inutile, dal momento che di partecipazione se ne parla tanto ma non succede niente.
Ci sono esperienze contrattuali significative, ricorda Treu, ma isolate. Si parla anche del modello renano, punto di riferimento in Europa di una partecipazione esercitata e riuscita. L’Italia è stata ostile per 50 anni al modello partecipativo, perché il sistema di relazioni industriali è stato fortemente ispirato dal pluralismo contrattuale e conflittuale. Finché la nave è andata, dice Treu, e l’economia era in crescita, non ci sono stati problemi, la contrattazione si è sviluppata e a livello nazionale c’è stata la concertazione. Ora, in presenza della crisi, c’è più bisogno di regole e coesione, c’è divisione sindacale e manca una politica industriale. Il pluralismo è diventato sempre meno virtuoso e la rappresentanza, che fino adesso ha funzionato, ora ha bisogno di regole che la definiscano.
E’ necessaria, quindi, una scelta: o si procede senza regole o si lascia spazio alla partecipazione per costruire un modello sociale che abbia a che fare con la democrazia economica. Da chiarire è cosa s’intende per partecipazione (gestione, vigilanza, Consigli di sorveglianza alla tedesca), senza dimenticare che su questo argomento sono diffidenti sia alcuni sindacati che la Confindustria. Altra questione è l’ambito di applicazione delle regole. Per Treu la partecipazione va applicata alla grande impresa, perché nelle pmi la cooperazione si può realizzare in altri modi. Ancora, c’è l’azionariato, strumento parallelo a quello della partecipazione. Il Parlamento europeo ne ha fatto una strategia, e nelle pmi può essere utilizzato per la ricapitalizzazione per favorire il passaggio generazionale. Altra questione è il collegamento tra azionariato e fondi pensione, operazione di tipo economico poco utilizzata. Ma la partecipazione va affrontata, anche solo un pezzo alla volta.
Secondo Gaetano Sateriale della Cgil, non serve una legge, ma si deve guardare alle varie esperienze europee e sperimentare. Infatti, dice, è difficile immaginare che partendo da progetti di legge, pur non vincolanti, si possa cambiare la cultura delle relazioni industriali e la forma del nostro sistema di produzione. Il sindacalista non è ottimista perché ritiene che nel paese vi siano ancora troppo diffidenze, sia da parte delle organizzazioni sindacali, sia da parte delle imprese. Confindustria, dice, ha opinioni pregiudizialmente ostili, ma anche dal settore cooperativo non arrivano proposte originali negli ultimi tempi. Se non la legge, cosa?, si chiede Sateriale. La risposta è la sperimentazione che nelle imprese può essere utile, aggiunge, perché valorizza il lavoro dal punto di vista delle conoscenze, esperienze lavorative, capacità produttiva e retribuzione. Non c’è la cultura della partecipazione non perchè siamo prigionieri della cultura del conflitto, ma perchè le imprese attuano un’organizzazione del lavoro che è il contrario di quella partecipativa. Il problema, sostiene, è che oggi l’organizzazione del lavoro segue un modello novecentesco caratterizzato da una rigida separazione delle manzioni, dei saperi, delle responsabilità e del controllo. Non capisco, continua, perché ci si stupisce del fatto che in Italia il lavoratore non riesce a identificarsi con l’azienda per la quale lavora. Bisognerebbe invece incentivare questa identificazione con il lavoro. Superare queste barriere e mutare le organizzazioni è oggi più utile che derogare alle regole. Parlando del modello renano, Sateriale ha poi ricordato che vi è una netta separazione tra la rappresentanze dei lavoratori che è quella che partecipa alle decisioni in fabbrica, e la rappresentanza sindacale che invece partecipa alla contrattazione collettiva. Quindi applicare il modello renano nel nostro paese vorrebbe dire anche mutare completamente le regole di rappresentanza.
Diversa la posizione di Maurizio Petriccioli, segretario confederale della Cisl, che, innovando la tradizionale posizione della sua confederazione, ha detto che è necessaria una legge che elimini ogni ostacolo e che lasci libere le parti di scegliere se sperimentare o no modelli di partecipazione nelle singole aziende. Secondo l’esponente della Cisl, in particolare oggi vi sono forti ostacoli alla partecipazione dei sindacati ai consigli d’amministrazione. Quindi secondo la Cisl non serve copiare il modello tedesco, ma serve semplicemente l’eliminazione via legge di tutti gli ostacoli alla libera contrattazione tra le parti sociali che desiderano sperimentare fenomeni partecipativi. Secondo Petriccioli, non è vero che il sistema di relazioni industriali italiane sia basato esclusivamente su rapporti di tipo conflittuale perché tanti elementi di tipo partecipativo sono già inseriti. Si tratta, conclude, di proseguire su questa strada, senza mettere un’etichetta sul modello partecipativo da applicare ma lasciando alla legge uno spettro molto ampio di definizione e alle parti sociali la scelta della forma migliore di partecipazione a seconda del clima che si vive in azienda e dell’utilità effettiva del modello partecipativo.
Per Paolo Pirani, segretario confederale della Uil, quello sulla partecipazione è un dibattito “confuso”. Il sindacalista ricorda che le differenze tra il modello di relazioni industriali italiane e quello tedesco ha origine nella volontà americana del secondo dopoguerra. Nel caso tedesco prevalse la volontà di controllare attraverso la partecipazione dei lavoratori la volontà degli imprenditori tedeschi per evitare che si ripetessero tentazioni totalitarie, mentre nel secondo caso si scelse un modello conflittuale per paura dell’influenza del forte partito comunista italiano sul sindacato come era stato per i consigli di gestione. Pirani aggiunge che le esperienze di partecipazione come quelle sperimentare in Alitalia e in Trenitalia non hanno raggiunto grandi risultati e hanno causato forti inefficienze. La Uil, ha aggiunto, preferisce puntare, più che sui processi decisionali che spettano a chi mette il capitale, sulla produttività e sulla condivisione della conoscenza. Pirani ha ribadito che l’organizzazione del lavoro compete all’azienda, mentre il sindacato deve tutelare i lavoratori. Quindi, conclude, non si deve puntare a fenomeni di codecisione, ma, sul ruolo e sulla funzione del sindacato, attraverso enti bilaterali, welfare contrattuale e relazioni industriali cooperative.
“Non si capiscono le ragioni, i perchè, la logica di questo dibattito sulla partecipazione”, ha detto Pierangelo Albini, vicedirettore centrale di Confindustria. Questo perchè, a suo giudizio, non si intravede con chiarezza la finalizzazione di ragionamenti che vengono fatti al di fuori di un disegno complessivo. I temi di cui si è discusso, dalla democrazia economica a quella industriale, alla partecipazione dei lavoratori sono molto diversi tra loro e nello spostarci da una visione micro a un punto di vista macro non riusciamo, ha detto Albini, a mettere a fuoco con chiarezza i nodi della questione. Per la partecipazione serve poco una legge o un contratto. E’ necessaria, invece, un’idea di consenso diversa. Di esperienze se ne praticano moltissime, dice, e il Codice della partecipazione fornisce una vasta gamma di scelte. A suo giudizio, rimane il problema complessivo della politica industriale, di una visione complessiva dell’economia, di quello che deve essere il sistema delle imprese e la partecipazione dei lavoratori. Il tema vero però, osserva Albini, è il contributo che le parti sociali possono dare per migliorare le cose nel Paese. Abbiamo ampi spazi di intervento come organizzazioni sindacali attraverso la bilateralità nel sistema di welfare, che sono la premessa per costruire all’interno delle imprese situazioni di contesto che facilitino poi la nascita di un percorso condiviso tra aziende e lavoratori. I temi però vanno tenuti distinti perchè un conto è ragionare dentro un sistema di relazioni industriali, un conto è ragionare dei modelli della democrazia economica e industriale.
Per Achille Passoni, senatore Pd, è importante capire quale debba essere il ruolo del Parlamento rispetto ai due temi di rappresentanza e partecipazione. Sono due concetti che devono essere collegati e attengono all’idea complessiva di relazioni industriali a supporto di un’idea, e non con il fine di imporre un’idea. Il dibattito sull’opportunità di una legge si cala in un momento difficile nella storia delle relazioni industriali di questo paese, nel quale è necessario superare ideologismi e rigidità. L’azionariato può essere una strada da percorrere, ha detto, anche se questo argomento di dibattito è molto arretrato. Non c’è molto spazio di iniziativa autonoma e di dibattito.
Un accordo separato sulla rappresentanza sarebbe una sciagura. Per riunire tutte e tre le confederazioni bisogna invece ripartire dal modello contrattuale, da un’idea di rappresentanza legata al voto dei lavoratori. Passoni pensa che se si recuperassero questi temi, il resto potrebbe anche venire dietro. Altrimenti, conclude il senatore, diventa difficile un intervento del Parlamento a prescindere.
Marco Mondini, direttore delle relazioni industriali di Electrolux, ha ricordato come la sua azienda vanti una sperimentazione del sistema partecipativo di antica data fatta dall’azienda a metà degli anni ’90, quando si chiamava ancora Zanussi, che ha permesso la creazione di un sistema di informazione e valutazione dei problemi, che ha anche elementi di cogestione dei problemi lavorativi. Questo modello è stato, prosegue, un valore aggiunto per l’impresa e ha permesso di gestire molte crisi agevolmente. Oggi purtroppo questo sistema non ha più la stessa agilità di un tempo, soprattutto se si pensa che facciamo parte di una multinazionale che giudica questo processo partecipativo certe volte troppo lento per le dinamiche internazionali. Certo però tutti oggi hanno l’abitudine mentale a ragionare in termini di condivisione e di confronto senza negare il conflitto o gli interessi contrapposti. Questo credo che sia il vero valore aggiunto, perchè mette le parti sociali nella condizione di fare contrattazione collettiva. E’ importante inserire il discorso della partecipazione all’interno di uno schema, ha concluso Albini, ma credo sia fondamentale prima risolvere il problema della rappresentanza e su questo io ritengo che serva una legge perchè le parti sociali non sembrano essere in grado di trovare una soluzione.
Giampiero Giacardi, direttore centrale delle risorse umane in Autostrade, si è chiesto cosa s’intenda per partecipazione, affermando che il sistema distingue tra partecipazione, rivendicazione o cooperazione. A suo avviso, ci possono essere due modi per intendere la partecipazione: quello di consultazione dei dipendenti, attraverso la cooperazione, la rivendicazione, l’analisi degli investimenti e dei costi, le esigenze di ricapitalizzazione; l’altro attraverso la partecipazione finanziaria, che include rischi non sempre ponderabili. Esempi di opa anche per i dipendenti li ritroviamo in Italgas, Enel, Eni, Telecom e Autostrade. Il discorso, osserva, non può essere ricondotto solo alla rappresentanza e al premio di produttività. Vanno condivisi anche i rischi, e qui entra in gioco l’organizzazione del lavoro. Partecipazione è una parola imprecisa, ha un significato diverso dalla cooperazione. Bisogna abbandonare gli alibi, uscire da una retorica delle parole e puntare sulla crescita aziendale. Chi lavora nelle imprese va ascoltato ed è difficile stabilire se questo può essere garantito attraverso una legge o un accordo. Per passare a una dimensione pratica forse serve una legge.
Pietro De Biasi, direttore delle relazioni industriali dell’Ilva, ha spiegato che nel modello tedesco la parte vitale della partecipazione non è quella nei consigli d’amministrazione delle imprese. Il cuore, ha detto, è la cogestione aziendale, sistema duale, completamente diverso da quello italiano. Nel sistema renano nulla può essere fatto senza l’accordo dei lavoratori. Il che vuol dire che nulla è deciso senza l’accordo dei sindacati, perché questi si occupano della contrattazione collettiva. Il sintema di codecisione si basa su organismi eletti dai lavoratori che possono essere anche non collegati ai sindacati. Ecco, perché è fondamentale, quando si parla di Italia, “capire di quale partecipazione si sta parlando”, se si parla di consigli di sorveglianza o di partecipazione a livello di organizzazione del lavoro. Se si vuole sperimentare il modello tedesco bisogna quindi fare una scelta molto forte, non mischiando i diversi modelli, ma compiendo una scelta precisa e riformare completamente il sistema delle relazioni industriali. Infatti il Ccnl in Germania è solamente un patto tra privati, non obbligatorio.
Riccardo Giovani, di Confartigianato, ha affermato che il tema della rappresentanza, così come quello della partecipazione, non può essere affrontato da una legge. Questo per due motivi: perché la legge prevede un modello unico per tutti, e perchè il legislatore, con le pressioni che riceve, rischia di sommare i vari modelli e di fare un pasticcio.Quindi il tema può essere affrontato meglio con un accordo. Per partecipazione, dice Giovani, intendiamo un modello delle imprese attento ai valori delle persone, alla funzione sociale d’impresa, allo sviluppo della bilateralità (ammortizzatori sociali, sicurezza sul lavoro, sanità integrativa). Dobbiamo crescere sul terreno del mercato del lavoro, dice, perché questo può dare risultati anche in termini di occupazione. Sulla partecipazione agli utili, Giovani ha ricordato che questa è inserita nel sistema dell’artigianato e che si manifesta nel contratto di tipo territoriale quando le parti sociali si confrontano su alcuni indicatori e su altre questioni e determinano il salario di produttività.
Sabina Valentini di Confcooperative e Carlo Marignani di Legacoop, ricordando che Tiziano Treu è il padre della legge che disciplina la figura del socio lavoratore, hanno detto che le cooperative sono portatrici di un sistema di valori dove la partecipazione è insita nel rapporto tra soci lavoratori e cooperativa. La cooperazione di lavoro, infatti, rappresenta il modello partecipativo più avanzato in quanto si tratta di una partecipazione di controllo da parte dei soci lavoratori. Naturalmente tale modello propone complessità, ma l’esperienza ci dice che è anche virtuoso e che le imprese con più partecipazione sono anche quelle con migliori performance. Valentini ha ricordato che esiste anche un altro tipo di cooperative, quelle dove il socio è il cliente o il conferitore e in questo caso i lavoratori sono semplici dipendenti. Proprio in riferimento a questa tipologia di cooperative Marignani ha evidenziato che si stanno sviluppando ipotesi di sperimentazione di partecipazione agli organi laddove sia presente una governance di tipo duale. Sullo sfondo del tema c’è ovviamente anche quello della rappresentanza. E’ un tema che va risolto anche perché la mancanza di una più puntuale definizione sta contribuendo significativamente all’aggravarsi del fenomeno del dumping contrattuale e al proliferare di finte cooperative.
Per Angelo Stango, responsabile relazioni industriali Indesit, il problema è che non ci si mette in gioco. Invece partecipazione è mettersi in gioco. Siamo usciti da una cultura conflittuale per entrare in una cultura partecipativa? Fino agli inizi degli anni ’90 la cultura conflittuale andava bene perchè sia i sindacati che le imprese erano alla ricerca di sicurezze, oggi in un sistema globale dove è cambiato tutto, dal modo di vendere, al modo di essere competitivo, ha ancora valore parlare di sicurezza invece che di sfida? Secondo Stango è necessario passare alle scelte condivise, abbandonare il conflitto, proporre la condivisione. L’esperienza di Indesit, che da sempre applica il modello partecipativo, è significativa soprattutto in caso di ristrutturazioni. L’assenza di conflittualità sta proprio nell’affrontare insieme ai lavoratori le difficoltà produttive dell’azienda. Altra questione sulla quale si è manifestata un’esperienza di tipo partecipativo, ha sottolineato Stango, è la sfida sulla precarietà, sul come uscirne, che in Indesit, ad esempio, ha portato all’introduzione di bacini, da cui attingere per i contratti a tempo indeterminato. Bisogna credere nella contrattazione di secondo livello, dice Stango, valorizzarla, e invece prevale la ricerca della sicurezza e una deresponsabilizzazione da entrambe le parti. Condividere gli strumenti vuol dire mettersi in gioco. Questo costa fatica, ma è un beneficio sia per l’impresa che per il lavoratore.
Anche per Davide Calabrò, senior vice-president Eni, è necessario mettersi in gioco e accettare le sfide. A suo avviso, le grandi differenze vanno superate in nome di un percorso di condivisione degli obiettivi. La partecipazione deve essere intesa come una crescita per l’impresa. La riflessione va fatta proprio sugli obiettivi da perseguire. Ad esempio, i risultati e la performance che ci attendiamo dal sistema impresa, la sicurezza occupazionale, i premi ai lavoratori. E per fare questo, spiega Calabrò, è necessario valorizzare le risorse umane che sono un asset strategico. Infatti, a suo avviso, quello che ci potrà contraddistinguere nel futuro come sistema industriale saranno le persone, i saperi, quello che sappiamo fare. Centrali sono gli uomini e i saperi. Su questo dobbiamo costruire, dice, avere l’uomo al centro dei nostri modelli. Non raggiungere questi risultati, secondo Calabrò, rappresenta un fallimento comune. Però per raggiungerli è necessario ripartire dalle basi, chiarirsi in partenza, affinché tutti i percorsi siano più semplici. Se invece si passa soltanto ai modelli, agli strumenti, ai vincoli, conclude, non se ne esce fuori.
Marco Gorga, responsabile relazioni industriali Enel, dice che la partecipazione nel gruppo si può definire una “strada senza ritorno”. Si tratta, aggiunge, di una storia vincente, basata su partecipazione azionaria, partecipazione di qualità correlata a buoni risultati, accordi sulla produttività che legano parte della retribuzione a indici di redditività aziendale. E’ difficile fare distinzioni, dice Gorga, la qualità della partecipazione è strettamente legata alla qualità delle relazioni industriali, dei processi produttivi, dell’organizzazione dell’azienda, di forme di incentivazione alla produttività. L’importante, aggiunge, per avere risultati è che ci siano obiettivi comuni. Obiettivi condivisi non solo sulle forme di gestione di crisi o ristrutturazioni, ma soprattutto in fasi di costruzione. A suo avviso è importante il confronto su tutti gli aspetti della gestione d’azienda, compresi quelli organizzativi, perché non ci sono limiti a discutere e a confrontarsi nel rispetto delle parti. Il dibattito su come queste forme di partecipazione possano essere aiutate o spinte ulteriormente anche dal legislatore, è un dibattito aperto e di grande complessità, dice. Sicuramente bisogna osservare le esperienze che funzionano e capire perché funzionano, dal momento che la qualità, conclude, è uno dei fattori fondamentali che permette di superare le differenze e di essere fortemente concentrati su quello che si vuole realizzare insieme.
“Perché parliamo di partecipazione, quando il modello di relazione è ancora conflittuale?”, si è chiesto Alfredo Pasquali, di Confindustria Energia, sottolineando che la contrattazione si basa ancora su un modello conflittuale che da una parte vede il sindacato con la sua piattaforma pronto a rivendicare tutto, e dall’altra le imprese che non vogliono negoziare niente. Parlare di partecipazione, invece, vuol dire o fare un salto, senza risolvere un problema che esiste ancora, oppure copiare un modello come quello tedesco, sperando che questo ci faccia migliorare la produttività. A suo giudizio, invece, si dovrebbe ragionare in un altro modo. Se siamo d’accordo sugli obiettivi, ha detto Pasquali, la discussione sarà su come realizzarli, mantenendo chiarezza di ruoli. Se l’obiettivo vero è fare accordi, non possiamo più farli a prescindere, servono tre o quattro valori fondamentali che si condividono, altrimenti ci si separa, ha detto. Non è più possibile ha detto Pasquali sottovalutare la variabile tempo, bisogna fare le cose bene ma in tempi certi. La discussione sulla partecipazione forse potrà essere ripresa fra qualche altro anno, quando le condizioni saranno più favorevoli.
Romano Magrini, responsabile lavoro della Col diretti, sostiene che il mondo agricolo non ha ancora una posizione netta nel dibattito “legge sì, legge no”, perché l’associazione è fatta da tante piccole aziende e numerosi dipendenti a tempo determinato. Sicuramente, aggiunge, abbiamo fatto una forte scelta partecipativa svolta a livello territoriale dove esiste un rapporto diretto tra il datore di lavoro e il lavoratore, esperienza che ha portato a una notevole diminuzione della conflittualità. Paradossalmente la partecipazione può essere intesa anche in questo modo, quando sussiste una diretta collaborazione dei lavoratori con l’imprenditore nella gestione dell’impresa. La scelta fatta in agricoltura è stata quella di delocalizzare molto per arrivare a una contrattazione a livello provinciale vicina ai lavoratori e sviluppare una bilateralità che permettesse di sviluppare una partecipazione tra imprese e lavoratori.
Marco Marazza, Università di Teramo, tirando una sintesi del dibattito, sostiene che il mondo cooperativo e quello dei coltivatori diretti non sono interessanti dal fenomeno della partecipazione perché riguardo a Coldiretti il tutto si risolve in un fenomeno di welfare contrattuale e riguardo al sistema cooperativo perché il dipendente è anche socio e quindi partecipa alle decisioni.
Secondo Marazza la partecipazione è un tema che riguarda principalmente l’industria. Inoltre aggiunge, nel nostro paese esiste già un sistema di partecipazione autogestita, ma non funziona perché non regolamentato. Per il giuslavorista, le richieste della Cisl di eliminare gli ostacoli alla partecipazione azionaria vanno slegate da un eventuale legge sulla partecipazione perché questa legge non verrà approvata a breve, mentre sulla sola rimozione degli ostacoli alla partecipazione azionaria si potrebbe trovare più facilmente un accordo. Per Marazza non c’è bisogno di una legge, si deve decidere caso per caso nelle aziende.
Franco Liso, Università La Sapienza, lancia invece una provocazione proponendo che sindacati e imprese si accordino sui casi in cui si possa licenziare per giusta causa, evitando così che sia il giudice a dover decidere. Il giuslavorista propone anche che le parti decidano insieme quando assumere personale con contratti a tempi determinati. La gestione del personale, dice, ha bisogno di criteri certi, e se i sindacati e le imprese si mettessero d’accordo toglierebbero spazio alle iniziative del governo. Iniziative che Liso considera, sbagliate. In conclusione, il professore definisce la partecipazione come “partecipazione a forme di potere” e dice che la globalizzazione rende ormai ineludibile il tema.
Luca Fortis
Francesca Romana Nesci