di Gaetano Sateriale
Supponiamo di vivere in un Paese con l’economia ancora ferma per la crisi del 2008, in cui la dinamica della domanda sia troppo scarsa per far ripartire gli investimenti privati e il deficit dello Stato tanto elevato da impedire agli investimenti pubblici di trascinare la crescita. Immaginiamo per un attimo che sia stata avviata una qualche riforma federale con spostamento di funzioni e competenze sui Governi regionali e territoriali ancora privi di risorse autonome. Infine, ipotizziamo che il Paese sia molto disomogeneo in quanto a competitività delle imprese, qualità dei servizi, livello di reddito, bisogni sociali. Come innescare, in un Paese con queste particolari caratteristiche, un nuovo percorso di crescita competitiva basato sulla diffusione dell’innovazione?
Un approccio classico vorrebbe che si agisse per settori, con l’obiettivo di aumentare l’offerta di fattori innovativi da immettere nel sistema (tecnologie, conoscenze, competenze), poiché a una maggiore disponibilità di questi fattori corrisponderebbe un loro più diffuso impiego. Com’è ovvio una politica siffatta dovrebbe essere programmata nazionalmente e avviata o sostenuta dal bilancio dello Stato. Ma questa ipotesi contraddice i vincoli posti in partenza: la crescita dell’offerta di innovazione (materiale e immateriale) presuppone ingenti investimenti sulla ricerca, sulla formazione, sulla scuola, e sconta tempi medio-lunghi di ritorno economico delle risorse impiegate. Inoltre, non è scontato che il sistema produttivo sia immediatamente pronto ad assorbire le risorse innovative disponibili sul mercato, poiché la domanda stagnante e il posizionamento medio del sistema produttivo verso beni a basso valore aggiunto non garantiscono questo automatismo. E nemmeno la dimensione media di impresa molto più piccola di quella europea che caratterizza il Paese di riferimento.
Nemmeno le tradizionali politiche macroeconomiche di sostegno della domanda sembrano poter funzionare in un momento di scarse risorse (sia centrali che locali): nel nostro caso non sarebbe possibile agire liberamente sui tassi e non saranno i grandi lavori stradali a immettere il carburante di tipo nuovo nel sistema, perché nessuno è in grado di finanziarli alla vigilia di un’ulteriore manovra di taglio della spesa di 40 miliardi e perché sarebbe comunque una ripresa a basso impatto innovativo.
Se invece avessimo la fortuna di vivere in un Paese in cui (malgrado squilibri strutturali e scarsità di risorse pubbliche) le conoscenze, le competenze, l’innovazione tecnologica esistono e sono disponibili (ne sono prova gli indicatori dell’export di alcuni segmenti e delle risorse umane) ma non vengono impiegate perché il sistema produttivo stenta a ripartire sarebbe più facile immaginare politiche “industriali” di impiego e diffusione dell’innovazione. In questo caso risulterebbero più efficaci interventi dal lato della domanda in grado di individuare le innovazioni e diffonderle. Facciamo un esempio per uscire dall’astrazione.
In Italia esistono tecnologie e saperi in materia di edilizia sostenibile già in parte sperimentati. L’edilizia residenziale e di servizio che si conosce (e ristagna) è invece tradizionale: consuma il territorio, non è progettata per risparmiare energia e neppure per produrne, non ha una relazione stabile con l’effettiva domanda di abitazioni. Nessuno imporrà mai una programmazione top down di riconversione del settore che rischierebbe di mettere fuori mercato molte imprese piccole e ridurre i superprofitti delle grandi. Ma chi impedisce che (magari gradualmente) i piani di regolazione territoriale delle Regioni o i piani urbanistici dei Comuni vincolino una parte del nuovo costruito a canoni di risparmio energetico e di riqualificazione dell’esistente? Nessuno, se non le convenienze della politica o le attitudini culturali di questa o quella amministrazione. Invece, l’introduzione di vincoli energetici e di recupero per via amministrativa avrebbe il vantaggio di essere sostenibile per la pubblica amministrazione: immediatamente applicabile, non direttamente onerosa e in grado di favorire una trasformazione qualitativa del settore agendo dal lato della domanda.
Esempi analoghi di salti potenziali di innovazione suscitati da atti amministrativi non onerosi possono essere individuati in molti campi: ciclo dei rifiuti e scorie, trasporti locali, reti immateriali, sicurezza alimentare, sanità, assistenza sociale, mobilità sicura, inquinamento atmosferico, ecc.
La tesi che si intende sostenere è pertanto la seguente: in un Paese caratterizzato da presenza di risorse innovative puntuali e non diffuse, una domanda non in grado di attivarle e un posizionamento del sistema produttivo su fasce a basso valore aggiunto, la crecita competitiva si può avviare con politiche di sollecitazione dal basso di una domanda qualificata, in grado di “scovare” e trasferire conoscenza e innovazione. In questo senso si agirebbe sul tasso medio di innovazione del sistema produttivo e di servizio piuttosto che non implementando il tasso “marginale” di innovazione dei singoli fattori. Queste politiche non possono che avere uno start-up regionale e territoriale. La loro attivazione, inoltre, non sarebbe efficace se fatta attraverso lo strumento tradizionale del bando e della selezione. Poiché per aumentare il loro effetto di trascinamento è più utile agire sulle dinamiche generali del mercato piuttosto che non sui comportamenti di alcune singole imprese preselezionate.
Tra i tanti campi di possibile applicazione delle politiche locali di sollecitazione della domanda di innovazione, ve ne sono alcuni che hanno, come abbiamo visto, preciso riferimento ai grandi bisogni sociali delle comunità. Essi potrebbero essere sollecitati nei percorsi di concertazione e contrattazione sociale tra organizzazioni sindacali e istituzioni di Governo regionali e locali. In questo caso si caratterizzerebbe in senso anche propulsivo e di programmazione l’esperienza di concertazione del welfare locale che è rimasta una delle pratiche sindacali più diffuse (e più saldamente unitarie).
Possiamo realisticamente prevedere politiche a basso onere economico per gli enti che le attivano. Tuttavia i salti di innovazione prodotti potrebbero non essere neutrali per le imprese coinvolte, specie le piccole, abituate ad una competitività prevalentemente di costo. Allo scopo di facilitare l’aggregazione di più imprese in strutture di rete, potrebbero essere immaginati alcuni strumenti di sostegno di natura fiscale e creditizia.
Se vivessimo in un Paese in cui il credito è indirizzato alla progettualità delle imprese il problema sarebbe di minore portata. Avendo un sistema creditizio che eroga preferibilmente crediti garantiti da proprietà immobiliari (e non da progetti industriali), per evitare strettoie di caratterie finanziario, si potrebbe agire attraverso il meccanismo dei fondi di garanzia (confidi), per ridurre il rischio bancario e facilitare il credito alle imprese soprattutto piccole che intendono associarsi per affrontare il salto tecnologico imposto dal mercato.
Sempre in ambito territoriale sarebbe possibile affiancare singoli progetti industriali di innovazione con mirati innesti professionali nelle imprese coinvolte, anche attraverso convenzioni con l’Università e i centri di ricerca. A questo scopo potrebbero essere impegnate, per le piccole imprese, parte dei fondi previsti dagli Enti bilaterali. Anche in questo caso si tratta di coinvolgere e adattare risorse professionali che esistono al di fuori delle imprese (e il cui rapporto di lavoro è in genere marginalizzato) piuttosto che non crearne ex novo.
Il percorso di politica industriale dal basso per la diffusione dell’innovazione che abbiamo illustrato presuppone: che ci sia scarsità di domanda e non di innovazione, che ci sia propensione programmatica a livello degli esecutivi regionali e locali, che esista una disponibilità sindacale ad avanzare piattaforme locali unitarie per lo sviluppo del territorio. Sono condizioni oggi ancora possibili ma non a tempo indeterminato.
Il percorso indicato avrebbe i vantaggi di essere più misurato sulle esigenze dei singoli territori, più facilmente verificabile nei suoi effetti (e correggibile), più veloce in termini di rapporto tra risorse impiegate e benefici di sistema.