A circa un mese dalla sua sottoscrizione l’Accordo interconfederale del 28 giugno scorso tra Confindustria e sindacati continua a produrre commenti e riflessioni. Nella prima fase hanno prevalso le valutazioni intorno al senso politico, che ne sottolineano giustamente la rilevanza e la possibile positiva inversione di tendenza per il nostro sistema di relazioni industriali. Non sono mancate le esegesi tecniche, ascrivibili soprattutto ai giuristi del lavoro, quasi sempre utili a decrittare alcuni passaggi del testo (che per fortuna risulta più essenziale rispetto a qualche prototipo del passato).
Resta in campo un certo ‘malpancismo’ di sinistra (che si manifesta soprattutto nella Cgil piuttosto che nella sfera partitica), orientato a criticare in parte o in modo più radicale questa intesa. Non è sorprendente che a sinistra si riproponga periodicamente un certo problematicismo tormentato di fronte a passaggi di fase : anzi deve essere benvenuto. Quello che sorprende maggiormente in alcuni commenti è l’arroccamento di fronte ai cambiamenti, in nome di una realtà – di un passato – che sarebbero superiori, ma che in gran parte non esistono più. Appare giusto non accettare acriticamente le novità: ma dove si trova il ‘mondo migliore’ e più avanzato che quei cambiamenti scuoterebbero? Al fondo si rintraccia la mitizzazione di un orizzonte perduto e di un’autonomia collettiva da tempo bisognosa di nuovo ossigeno.
Segnalo tra parentesi come il sindacato (la Cgil, che è un mondo variegato) costituisca ormai l’epicentro di questo malessere (ma anche dei fermenti positivi), perché si è completata la sostituzione di questo soggetto a quelli politici-partitici come luogo di aggregazione del dibattito sugli ideali e valori della sinistra contemporanea. Questa successione dei fini del sindacato ai partiti può in prospettiva – va detto – però comportare nuovi problemi di ruolo.
Intanto quale visione del futuro sia preferibile è diventato per le (numerose ) culture di sinistra oggetto di una discussione sindacale, mentre i partiti osservano dallo sfondo. Qualche decennio fa sarebbe stato il partito (con la P maiuscola) a dibattere e alla fine dettare la’ linea’ politico-culturale su questa materia, mentre ora si limita a ratificarla (per comodità evitiamo di entrare nel dettaglio di epoche e partiti diversi ) .
Per queste ragioni in una valutazione di prospettiva vediamo quali parametri possono aiutarci a mettere a fuoco i cambiamenti attesi, come conseguenza di questo Accordo : pur sapendo che bisogna mettere in conto effetti applicativi almeno in parte diversi da quelli immaginati e che una parte degli esiti pratici è comunque affidata all’impegno e alla capacità degli attori.
Appaiono due i principali criteri di misura cui fare riferimento : la comparazione con altre realtà ed assetti; il confronto con la situazione (pre)esistente.
Un breve sguardo di natura comparativa consente di capire se le soluzioni adottate si muovano in sincrono con quelle che maturano nei principali paesi europei, o se configurino delle peculiarità virtuose.
Se adottiamo quest’ottica in relazione al primo aspetto dell’AI, gli interventi per regolare la rappresentanza, troviamo una sostanziale consonanza rispetto all’esigenza di definire questa materia in modo più nitido e trasparente. In quasi tutti i paesi esistono leggi che aiutano l’elezione delle rappresentanze di base e la misurazione del peso dei soggetti sindacali. La misurazione della rappresentatività è particolarmente delicata ed importante ovviamente nei paesi con pluralità di sindacati ( che sono in generale, ma non solo, quelli dell’Europa mediterranea).
Per questo è importante notare come anche in Francia , dove questo pluralismo è storicamente forte e frammentato, esiste da un paio d’anni una legge che finalizza la misurazione della forza dei singoli sindacati all’ammissione alla contrattazione e alla validità dei contratti.
In questo senso esistevano dunque un ritardo e una anomia nel nostro apparato di regole, che questo accordo sana in buona misura : aggiungendo a quanto già funziona per legge nel settore pubblico, una regolazione pattizia per le aziende che aderiscono a Confindustria. Un passo avanti importante, che però resta ancora in attesa di un completamento.
Rispetto alle tendenze internazionali i nostri sindacati hanno coltivato una specificità che l’AI conferma: la misurazione del consenso non avviene solo attraverso il voto per eleggere delegati , ma utilizza in modo equivalente anche la percentuale degli iscritti a ciascuna organizzazione . Questa doppia gamba, la media ponderata di voti ed iscritti, già adottata nei comparti pubblici, costituisce una vera e propria invenzione italiana. Una invenzione tesa a conciliare in modo dinamico – e fin qui c‘è riuscita – la concezione generalista e quella associativa del sindacato : quella cioè che si rivolge all’insieme dei lavoratori iscritti e non iscritti (e a cui si ispira principalmente la Cgil); quella che privilegia il rapporto con gli iscritti (nella quale si riconosce soprattutto la Cisl).
L’AI ricorre – come già succede nel settore pubblico – al principio maggioritario per la validità collettiva dei contratti aziendali (mentre affida implicitamente ai soggetti nazionali il compito di definire le regole per assicurare estensione ai contratti di primo livello). Si tratta di un criterio di buon senso, che è stato largamente applicato nei contratti pubblici con esiti unitari (almeno fino all’apparizione di Brunetta). Non è l’unico usato in giro per l’Europa. In Francia la soglia di validità è più bassa (si ferma al 30%) in ragione della faticosità abituale di allargare il consenso all’insieme dei soggetti sindacali interessati. In Spagna è più alta (tocca il 60%), in presenza di due sindacati di forza quasi equivalente: è un modo per evitare estenuanti bracci di ferro, e favorire sottoscrizioni condivise. In realtà anche in Italia si sarebbe potuta seguire questa strada, se si fosse voluto dare una spinta ulteriore all’unità tra i sindacati . I sospetti reciproci tra le Confederazioni hanno impedito di concordare intorno all’ opzione di una maggioranza qualificata. Il criterio prescelto – quello della maggioranza assoluta – si presenta comunque come intuitivamente e praticamente apprezzabile, e si caratterizza dunque come una extrema ratio cui rivolgersi in mancanza di un orientamento comune tra i principali sindacati.
Veniamo ora agli aspetti che riguardano la dinamica e la struttura della contrattazione. Le statistiche e analisi più recenti ci segnalano una crescente fatica dei contratti ‘larghi’ (nazionali, di settorio interconfederali) a svolgere con efficacia la funzione di unificare i trattamenti e di allargare le tutele, che hanno svolto con successo in passato, aiutando per questa via i sindacati anche a rafforzarsi organizzativamente. Quindi si assiste ad una certa erosione dei contratti a ‘largo spettro’ a cui si accompagna un imprevisto restringimento dei tassi di copertura contrattuale : più drammatico , ormai da tempo, in GB; con un improvviso balzo all’indietro , sotto la soglia del 50%, in Germania nel corso degli anni più recenti. All’origine di questo (preoccupante) fenomeno si trova la spinta al decentramento contrattuale per la quale operano da più di un ventennio tanto le organizzazioni datoriali che le singole imprese con l’obiettivo di mettere al centro della contrattazione (quando c’è ) lo spazio aziendale. Negli ultimi anni questa spinta, che in passato aveva convissuto con le regole centrali, si è fatta più dirompente grazie agli spazi offerti dalla globalizzazione. E l’obiettivo è così diventato quello di aggirare, in tutto o in parte, i vincoli posti dai contratti di respiro nazionale rafforzando la discrezionalità del potere manageriale. In altri termini quella lunga convivenza che aveva dato vita ad assetti di ‘decentramento organizzato’ (una mediazione tra le richieste delle imprese e le regole condivise) ha subito uno slittamento verso tentativi di ‘decentramento sregolato’ (un deciso spostamento del baricentro verso le aziende e al di fuori di controlli forti ). Il recente caso Fiat può ben iscriversi dentro questo scenario. Anche il sistema considerato più solido e alla stregua di un modello, come quello tedesco, è stato scosso significativamente. Sono aumentate notevolmente le clausole d’uscita, che prevedono oltre che aggiustamenti organizzativi congelamenti dei salari (o peggio). Ne è conseguito il calo tanto della sindacalizzazione che della copertura contrattuale. Un segnale d’allarme dell’incrinatura di un assetto che appariva solido ed inattaccabile.
Dentro questo quadro – ancora in movimento e sinteticamente ricordato – l’Accordo italiano appare come la costruzione di un argine. Forse diverso dalle ispirazioni tradizionali, perché non consiste nella difesa meccanica ed integrale del contratto nazionale. Esso punta piuttosto a riconoscere maggiori margini di manovra ai contratti decentrati, ma nello stesso tempo a mantenere una ampia potestà regolativa in materia di diritti fondamentali per il livello nazionale ridisegnato. Si tratta di un tentativo di innovazione , diverso da quelli europei , dove spesso prevalgono le posizioni resistenziali o gli adattamenti concessivi. Un tentativo dunque per molti versi in controtendenza con il clima prevalente nei paesi occidentali.
Esso risponde dunque al duplice imperativo di riconoscere un ruolo più ampio per i contratti aziendali ma all’interno di un quadro decisamente controllato dal centro o dai soggetti firmatari dell’AI : accanto ai filtri già operanti di livello nazionale sembra anche esserci quello aziendale dove risulta necessario l’ampio consenso per le ‘modificazioni’ da introdurre di tutti i soggetti firmatari . Uso il condizionale: in questo ambito sembra essere esclusa- come rileva Bellardi – la possibilità di accordi separati. Se davvero fosse così il controllo sarebbe assai stringente . Non so se questa sia l’interpretazione corretta, ma anche in assenza di questa clausola ipermaggioritaria rimarrebbe in piedi un controllo rilevante per evitare comportamenti opportunistici.
Per usare una formula ci troviamo di fronte a un ‘decentramento ‘ più significativo che in passato. Ma ancora più ‘organizzato’ che in precedenza a garanzia dei sindacati e dei lavoratori.
Vale anche la pena di notare che le parti enfatizzano nella premessa all’Accordo la centralità dello strumento contrattuale e ribadiscono l’importanza di entrambi i livelli contrattuali : è difficile rintracciare in altre realtà europee nella fase attuale una dichiarazione altrettanto impegnativa.
Veniamo ora al secondo aspetto : l’Accordo costituisce un passo avanti rispetto ai problemi attuali delle nostre relazioni industriali, in particolare dopo gli scossoni delle vicende Fiat?
A questo interrogativo bisogna dare una risposta decisamente positiva. L’accordo ha introdotto alcune regole del gioco essenziali superando gli evidenti deficit e buchi che ne ostacolavano certezze ed efficacia . Ha ragione chi, come Franco Liso, ha rilevato che idealmente esso rappresenta il completamento del Protocollo sulla politica dei redditi del 1993, che il suo artefice, Gino Giugni, aveva definito come una ‘Costituzione del lavoro’.
In particolare questo ragionamento investe la questione della rappresentanza. Nonostante l’impegno assunto nel 1993 non si era arrivati ad una sistemazione di portata generalizzabile di questo nodo, al di là della legge del 1997 che ha riguardato le pubbliche amministrazioni. Il contratto di Mirafiori aveva reso peraltro evidente – e insostenibile – il paradosso del mantenimento di meccanismi non basati sulla misurazione della rappresentatività effettiva dei soggetti sindacali.
In questo senso l’AI costituisce un necessario, quanto evidente salto. Esso sostituisce allo scenario di rappresentanza incerta e presunta, che ha lungamente prevalso, un tracciato ben definito di misurazione del peso dei sindacati. Era quanto richiedevano da tempo gli esperti e gli operatori ed è quanto è stato apprestato dall’intesa.
Come abbiamo già ricordato, è stata introdotta per l’ammissione ai tavoli negoziali nazionali la soglia – già adottata nel pubblico impiego – del 5%, basato sulla doppia gamba associativa ed elettorale. Al di là del non semplice passaggio alla messa in opera, questa previsione dovrebbe costituire un buon incentivo a praticare in tutti i luoghi di lavoro entrambe queste dimensioni.
Manca invece l’ indicazione di parametri che consentano di applicare senza contestazioni i contratti nazionali , anche nel caso in cui non siano sottoscritti da tutti: gli accordi separati che hanno segnato alcune rilevanti categorie a fronte delle tante intese firmate unitariamente. E’ possibile che questa prudenza sia dovuta all’esigenza di non avvicinarsi troppo alle trappole poste dal dettato costituzionale (l’art.39). Come è noto molti ritengono che la misurazione associativa di cui parla l’art.39 debba essere considerata come un’indicazione minima, che non esclude il ricorso al parametro elettorale. Ma al di là di questo contenzioso interpretativo le parti, senza inseguire l’erga omnes, avrebbero potuto impegnarsi reciprocamente a non mettere in discussione gli accordi raggiunti in presenza di determinati requisiti (appunto, in coerenza, con gli altre previsioni: la maggioranza assoluta dei lavoratori rappresentati garantita dalle organizzazioni firmatarie ) .
Per la validità dei contratti aziendali è invece previsto un doppio regime ancorato al principio maggioritario : l’approvazione da parte della maggioranza delle Rsu, o in caso di presenza delle sole Rsa l’orientamento prevalente tra queste. In questo caso, visto che i delegati Rsa sono privi di investitura generale-elettorale è previsto in alcuni casi precisi (il dissenso di una delle organizzazioni firmatarie o la richiesta di almeno il 30% dei dipendenti) il ricorso al voto di tutti i lavoratori interessati.
Troppa poca democrazia sindacale, come sostengono alcuni?
Intanto molta di più di quella che sussisteva fin qui : il quadro precedente era caratterizzato dall’assenza di criteri, da un volontarismo generoso e qualche volta pasticcione, non dalla definizione di procedure democratiche certe.
In dettaglio appare utile osservare come si verifichi un rilancio, non previsto, della dimensione elettorale, che investe l’insieme dei lavoratori .Si tratta di un tipico principio della democrazia rappresentativa quello che enfatizza il ruolo delle Rsu (e mette tra parentesi anche il canale di misurazione associativa). Va anche tenuto conto che nella prassi attuale le rappresentanze di base, quando si muovo nella sfera negoziale, già ricorrono ad una varietà informale di momenti di verifica con l’insieme degli interessati (assemblee, consultazioni, validazioni ex- post, consultazioni certificate etc.). Dobbiamo quindi ritenere che questa loro assunzione di maggiore responsabilità decisionale le dovrebbe spingere ancora di più ad avvalersi di questi supporti di democrazia diffusa.
Inoltre anche il coinvolgimento di tutti i lavoratori in presenza delle sole Rsa (che avviene non automaticamente, ma se si verificano alcune condizioni) presenta un notevole valore emblematico. Esso infatti apre la porta all’introduzione di elementi di ‘democrazia partecipativa’ . Certo controllati e selettivi , oltre che di natura integrativa : in altri termini il canale di democrazia diretta integra quello di democrazia rappresentativa, non lo sostituisce. Probabilmente questo apparirà troppo esiguo ed opaco ai cultori della democrazia referendaria con cadenze quotidiane. Ma non c’è dubbio che questo passaggio stia a significare l’accettazione condivisa di un principio non scontato e fin qui mai proceduralizzato : come i sindacati riconoscano di doversi aprire in alcuni momenti alla valutazione di tutti i lavoratori e non dei soli iscritti.
Abbiamo fatto già cenno alle innovazioni in materia di struttura contrattuale. Esse consentono di girare pagina rispetto alle divisioni degli anni scorsi, che avevano condotto la Cgil a non firmare l’Accordo- quadro sugli assetti della contrattazione (2009). Oggi circolano letture diverse : quelle (di fonte Cgil) che vedono in questo testo il superamento dell’accordo separato; quelle (ascrivibili agli altri attori) che invece vedono nel nuovo testo il completamento delle scelte precedenti. Senza entrare dentro questo contenzioso, che implica le differenti identità, è possibile avanzare qualche considerazione pragmatica. Il riconoscimento dell’utilità, purché controllata, di ‘intese modificative’ del contratto nazionale segna il superamento della frattura tra le nostre Confederazioni in materia di regole del gioco della contrattazione. L’AI segna anche un’evoluzione delle regole contrattuali in direzione di contratti nazionali meno ampi e più autorevoli, e di contratti aziendali più efficaci nel fronteggiare le specificità produttive. Un’evoluzione necessaria per superare i limiti , ricordati da Carlo Dell’Aringa, del quadro delineatosi negli ultimi anni : un contratto nazionale dalla portata divenuta più incerta, e un decollo inadeguato della contrattazione micro. Per molto versi si tratta di una scommessa. Ma una scommessa che individua una direzione di marcia idonea a restituire in prospettiva piena sovranità allo strumento contrattuale : che – non dimentichiamolo – non godeva di buona salute (ed è scosso anche altrove).
Per concludere questo (non esaustivo ) ragionamento vanno menzionati altri aspetti rilevanti.
Il primo consiste nel superamento, almeno temporaneo, della ‘disunione’ tra i sindacati confederali dopo tensioni durate alcuni anni. Non siamo tornati ad una qualche forma di unità sindacale. Ma per ora sono tacitati quanti tifavano – anche dal governo – per una spaccatura stabile tra ‘coalizioni’ (come erano state definite in modo prescrittivo ) sindacali contrapposte: Cgil da una parte e Cisl e Uil dall’altra. Le nuove regole non costringono all’unità a tutti i costi, ma consentono di dividersi – se necessario – senza drammi. Lo scenario della conta tra le nostre organizzazioni, destinato ad indebolirle tutte, è desiderato da alcuni, che hanno appunto elaborato il concetto di ‘coalizione maggioritaria’; ma anche paventato da altri, che per questo avrebbero preferito in modo conservatore lasciare le cose come stavano. A questo punto tocca a loro, ai sindacati , alle loro strategie e alla loro sensibilità unitaria, mettere in campo gli accorgimenti per evitare di dividersi. Insomma dipende unicamente da loro e non dalla mancanza di regole.
Infine queste nuove regole si applicano solo ad una parte del mondo del lavoro (le aziende che aderiscono a Confindustria), e non prevedono quegli strumenti di partecipazione alle scelte d’impresa che potrebbero davvero rafforzare la partnership sociale nel nostro paese. Dunque una cornice ancora imperfetta e da completare, ma l’avvio corposo di un processo positivo. Soprattutto sostanziato dalla restituzione al campo delle relazioni industriali del suo ruolo di bilanciamento condiviso dei principali interessi, di individuazione di soluzioni stabili per i problemi emergenti , oltre che di canale fondamentale per la regolazione congiunta del lavoro. Non è davvero poco.
Mimmo Carrieri, professore ordinario di Sociologia economica e del lavoro all’Università di Teramo