La Fism – la federazione internazionale dei sindacati metalmeccanici – che ha rappresentato l’esperienza più solida e duratura della cooperazione transnazionale tra sindacati e della solidarietà tra i lavoratori, il prossimo 18 giugno celebrerà a Copenhagen il suo congresso di scioglimento.
La Fism fu fondata in un caldo mese di agosto del 1893 quando trenta delegati di sindacati metalmeccanici di otto paesi si incontrarono in un piccolo hotel di Zurigo con l’obiettivo di istituire un Ufficio Internazionale. Le condizioni socio-economiche dei lavoratori metalmeccanici erano, in quegli anni, estremamente pesanti.
L’orario di lavoro nei paesi europei variava da 11 a 15 ore al giorno, per sei giorni la settimana, con salari bassissimi. Una realtà non dissimile da quella vissuta oggi in Cina e in altri paesi asiatici o nelle centinaia di “zone economiche speciali” disseminate nel mondo. Vere e proprie “piattaforme manifatturiere off-shore” per l’esportazione dove – ai turni massacranti per salari da fame – si accompagna la sospensione del sistema di regole e diritti. E tutto ciò avviene, senza pudore, sotto gli occhi colpevoli delle istituzioni internazionali e degli stati, che non prendono alcuna misura di contrasto verso queste forme di sfruttamento estremo.
Anche alle origini del movimento operaio, erano molti gli stati che negavano i diritti fondamentali del lavoro. Solo un numero molto esiguo di lavoratori era organizzato in sindacati, la cui struttura a livello nazionale era, però, fortemente frammentata.
Nonostante queste difficoltà è sorprendente come in quegli anni tra gli organizzatori sindacali fosse così sviluppata una coscienza internazionale incentrata sulla solidarietà e il sostegno reciproco. La lotta per le otto ore di lavoro, ad esempio, per avere una qualche possibilità di successo doveva essere perseguita contemporaneamente in tutti i paesi. La rapida crescita economica in termini di commercio internazionale ed investimenti, fecero cogliere immediatamente l’importanza del ruolo strategico che una federazione sindacale internazionale poteva svolgere nel tutelare i diritti umani e sindacali.
Dopo un decennio di azioni di solidarietà e mutuo appoggio coordinate dall’ufficio internazionale di Zurigo, nel congresso del 1904 i delegati sindacali – provenienti da 11 paesi – decisero di fondare la Fism.
E’ passato oltre un secolo da allora. Abbiamo attraversato due conflitti mondiali e le profonde divisioni sindacali provocate dalla contrapposizione tra il blocco sovietico e quello occidentale. Niente ora è come prima, ma nel mondo globalizzato tante sono le realtà che ci ricordano drammaticamente il cammino iniziato agli albori della prima rivoluzione industriale.
Le sfide da affrontare sono molteplici: dai diritti umani e sindacali ancora violati in buona parte del mondo alla crescita delle disuguaglianze sociali e di reddito (specie nei paesi europei e nord-americani). La globalizzazione economica e le politiche liberiste hanno spostato l’equilibrio di potere a svantaggio dei lavoratori e delle classi medie, a favore delle grandi Corporation transnazionali e degli investitori finanziari, liberi di agire senza vincoli di spazio-tempo.
Solo 147 imprese transnazionali, con stretti intrecci azionari tra loro, controllano il 40 per cento del volume di fatturato di tutte le imprese transnazionali del globo. I tre quarti di queste sono banche e società di intermediazione finanziaria, che a loro volta controllano un’importante percentuale di azioni dei maggiori Gruppi industriali.
A questo si aggiunge il fatto che la catena del valore di qualsiasi prodotto manifatturiero è sempre più a vantaggio della gestione logistica e della distribuzione a scapito della produzione, i cui costi sono oggetto di una pressione continua verso il basso. In questo contesto il tradizionale conflitto redistributivo tra capitale e lavoro nell’industria diventa sempre più asfittico, visto che la ricchezza si addensa altrove.
Le stesse grandezze del “costo e della produttività del lavoro” su cui da sempre sono ruotate (e ruotano ancora per chi guarda la realtà con lo specchietto retrovisore) le dispute negoziali, perdono di centralità. Basta calcolare quanto incide il costo del lavoro per ciascuna unità di prodotto, nella fabbricazione di auto o elettrodomestici, per non parlare della produzione di acciaio, alluminio o carta. Ci si rende subito conto che i fattori di costo su cui agire per recuperare produttività ed efficienza, aumentando i margini di reddittività, sono – più del fattore lavoro – i consumi di energia, l’uso delle materie prime e secondarie, l’entità degli scarti e l’incidenza dei trasporti nella supply chain (la catena di fornitura e distribuzione).
Su questo terreno si possono individuare nell’economia reale obiettivi condivisi e un cammino comune tra capitale e lavoro, anche nell’interesse dell’ambiente e delle generazioni future. E’ una delle sfide indicate dal presidente dell’Uaw, Bob King (come ci ha ricordato Mimmo Carrieri) quando sostiene che la sicurezza dei consumatori, l’efficienza energetica e la protezione dell’ambiente devono diventare delle priorità per un nuovo sindacalismo.
Queste sfide sono tutte accomunate dal fatto che dovremo – come sindacati – saper agire sempre di più a livello globale. Cambiando il nostro perimetro organizzativo e il nostro raggio d’azione: “go beyond borders” (andare oltre i confini.
In primo luogo dovremo creare reti sindacali sempre più organizzate ed efficaci nelle imprese transnazionali. In secondo luogo dovremo accompagnare l’azione globale di solidarietà con un rafforzamento delle organizzazioni sindacali internazionali, superando l’inadeguatezza dell’azione sindacale nazionale nel contesto della globalizzazione.
In terzo luogo dovremo saper mettere in campo un’azione congiunta per la sindacalizzazione dei “non-organizzati” e per la creazione di spazi contrattuali e di relazioni industriali sovranazionali (accordi di gruppo e/o di settore per aree regionali).
Per affrontare queste sfide c’è bisogno di sindacati forti dell’industria, che sappiano avanzare insieme parlando con una voce sola. Il primo passo, senza clamori mediatici, è stato compiuto lo scorso 29 febbraio a Ginevra. Eravamo circa 200 sindacalisti in rappresentanza dei comitati esecutivi delle tre federazioni internazionali (Fism, Icem e Itglwf). Si è votata la scelta di costruire un nuovo sindacato globale, in rappresentanza dei lavoratori di tutti i settori dell’industria: dal tessile-abbigliamento all’auto, dalla gommaplastica all’acciaio, dall’estrazione mineraria all’energia elettrica, dall’elettronica alla navalmeccanica, dall’aerospaziale alla cellulosa, dalla meccanica strumentale alla chimica, dal petrolio ai servizi ambientali ecc..
I congressi di scioglimento delle tre federazioni e quello di fondazione di IndustriALL Global Union sono in agenda dal 18 al 20 giugno 2012, nella città di Copenhagen. Oltre al nuovo nome si voteranno gli statuti, gli organismi dirigenti e il piano d’azione 2012-2016.
IndustriALL organizzerà più di 50 milioni di lavoratori nel mondo. Essere, però, un grande sindacato globale non vuol dire di per sé essere forti. Dipende se nella nuova struttura sindacale internazionale prevarrà solo l’esigenza di razionalizzazione organizzativa (tipica dei processi di fusione) o, piuttosto, la capacità di rinnovarsi proiettando la propria azione in una dimensione globale, ma con i piedi ben saldi nel pavimento delle fabbriche e delle comunità locali. Una strategia adattiva ai cambiamenti senza rinunciare ad immaginare il futuro.
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