Il nuovo assetto della contrattazione collettiva dopo il Protocollo di intesa del 31 maggio 2013
1. L’Accordo interconfederale del maggio 2013 tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria è stato considerato come “storico” o di valore “epocale”, per sottolinearne l’importanza ed il suo straordinario carattere innovativo. Questi giudizi sono in parte condivisibili, perché, insieme all’intesa del 28 giugno 2011, l’intero sistema della contrattazione collettiva viene ridisegnato con l’introduzione di grandi novità, che potrebbero in effetti costituire una vera e propria svolta nelle relazioni industriali italiane.
Tuttavia è necessaria una certa prudenza nel valutare l’accordo. Giudizi analoghi furono espressi nel 2011, soprattutto perché la nuova intesa avrebbe dovuto chiudere la stagione degli accordi separati e consentire una strategia unitaria tra CGIL, CISL e UIL sia per quanto attiene alla presentazione delle piattaforme di rinnovo dei contratti, sia in relazione alla stipula congiunta dei contratti collettivi. Questi obiettivi, tra l’altro, dovevano essere rafforzati dal patto aggiuntivo, allegato all’Accordo del 28 giugno 2011, con la quale le tre Confederazioni stabilivano regole dirette a risolvere potenziali conflitti tra i sindacati nella fase precontrattuale ed in quello di firma dei contratti, con la previsione di forme di consultazione dei lavoratori per ridurre i dissensi ed ottenere l’approvazione degli accordi da parte dei diretti interessati.
La realtà, invece, è stata diversa. Il 16 novembre 2012 è stato stipulato un importante accordo sulla produttività senza la firma della CGIL. Inoltre, nonostante i precisi impegni assunti, nel settore metalmeccanico vi sono state trattative separate tra Fim, Uilm e Federmeccanica, che hanno portato alla sigla del ccnl del 5 dicembre 2012 non sottoscritto dalla Fiom. Senza dimenticare che le tre Confederazioni per lungo tempo nulla hanno fatto per rendere applicabile il meccanismo di certificazione del 5% del livello di rappresentatività definito nel 2011. Le regole condivise, dunque, non necessariamente si concretizzano secondo il disegno voluto dalle parti. Infatti, nella dinamica delle relazioni industriali quello che conta non sono i patti stipulati ma la volontà di applicarli. E questo anche per l’assenza di strumenti giuridici efficaci che, in qualche misura consentano ai protagonisti di rendere giuridicamente obbligatori gli accordi sottoscritti.
Pochi giorni fa, in un contenzioso attivato dalla Fiom contro Film, Uilm e Federmeccanica nel quale si denunciava la violazione dell’AI del 28 giugno 2011 e dell’intesa allegata tra Cgil, Cisl e Uil proprio in relazione alle trattative separate per il rinnovo del ccnl, il Tribunale di Roma ha di fatto asserito che gli accordi interconfederali stipulati non hanno carattere giuridicamente vincolante per i sindacati di categoria. Essi conterrebbero soltanto «l’indicazione di indirizzi politici e comportamentali, nell’ambito dell’ordinamento sindacale, rivolti alle parti stipulanti i futuri contratti collettivi nazionali ed aziendali», senza imporre veri e propri obblighi giuridici. Si tratta, ovviamente, di considerazioni molto discutibili, perché, in base ai vincoli statutari che legano le Federazioni e le Confederazioni ed alla stessa volontà di Fiom, Fim e Uilm di applicare l’Accordo del giugno 2011, si poteva affermare la sua obbligatorietà giuridica nei confronti dei sindacati di categoria.
Tuttavia questa sentenza dimostra che mancano regole normative certe in materia e come l’applicazione delle intese generali stipulate dalle Confederazioni sindacali si fondi soprattutto sul consenso politico delle organizzazioni interconfederali e di quelle di categoria. L’anomia del sistema di relazioni industriali italiano sembra dunque essere ancora un suo tratto costitutivo. Il che impone anche qualche riflessione sulla possibile attuazione dell’art. 39 Cost. con una legge (tornerò su tale aspetto).
Vedremo, dunque, se l’intesa del 31 maggio 2013 aprirà effettivamente una nuova stagione delle relazioni industriali italiane. Tra l’altro, come osservato da alcuni commentatori, vi sono parti dell’accordo che richiedono l’attivazione di strumenti (si pensi al ruolo attribuito al Cnel ed all’Inps) che richiederanno tempi tecnici non brevissimi, tanto che alcuni affermano che il patto non sarà attivo prima del 2014.
2. Il Protocollo del 31 maggio 2013 è stato valutato molto positivamente da Cgil, Cisl e Uil e dalla Confindustria. Anche la Fiom ha espresso un giudizio favorevole, superando le perplessità espresse invece in relazione al patto del 2011. Questo cambiamento di opinione dovrebbe rendere più semplice l’applicazione dell’accordo anche nel settore meccanico. La stipula di questa intesa segna anche un ritorno ad una strategia unitaria di azione tra le grandi Confederazioni dei lavoratori che, dopo il patto separato sulla produttività del novembre 2012, sembrava nuovamente in crisi. La storia recente, peraltro, insegna che non necessariamente si tratta di una svolta definitiva, anche se la novità sta nel fatto che sono state definiti dei principi che dovrebbero consentire di gestire eventuali conflitti interni, favorendo soluzioni condivise.
La definizione di regole più certe in materia di contrattazione collettiva, accettate da tutti i sindacati più rappresentativi, è un fatto molto importante perché dovrebbe evitare molti dei fenomeni negativi che negli ultimi anni hanno caratterizzato le relazioni industriali (accordi separati, fuoriuscita della Fiat dalla Confindustria, contenziosi giudiziari, possibile applicazione contemporanea di più ccnl ecc.). Se, dunque, sarà effettivamente attuato e gestito in modo da risolvere unitariamente i possibili conflitti tra le organizzazioni sindacali, dovrebbe garantire maggiore stabilità al sistema contrattuale e minori incertezze ai lavoratori e datori di lavoro.
Nell’arco di due anni (2011 – 2013) i protagonisti della contrattazione collettiva hanno cercato di introdurre unitariamente norme molto più dettagliate per tutte le varie fasi della contrattazione collettiva (dalla presentazione della piattaforma, alla stipula dell’ipotesi di accordo sino alla sua approvazione da parte dei lavoratori). Ne risulta un sistema complessivamente più formalizzato e proceduralizzato, secondo una linea di tendenza già sicuramente presente nel nostro sistema ormai da anni. Inoltre sono stati modificati aspetti essenziali della disciplina: la struttura contrattuale a doppio livello, le materie affidate a ciascuno di essi, la derogabilità in peius del contratto nazionale di categoria, la misurazione della rappresentatività sindacale, la titolarità e l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi e la loro «esigibilità», consistente nella garanzia del loro rispetto da parte di tutti i soggetti, individuali e collettivi, coinvolti nello scambio contrattuale.
Questi mutamenti, letti in senso diacronico e tenendo conto della influenza che ha esercitato l’introduzione dell’art. 8 della l. 148/2011, ci consegnano un sistema contrattuale in profonda trasformazione e dagli assetti non ancora completamente definiti. In ogni caso si tratta di una realtà assai diversa da quella esistente sino a pochi anni fa.
3. Il Protocollo del 31 maggio è finalizzato a «dare applicazione all’accordo del 28 giugno 2011 in materia di rappresentanza e rappresentatività per la stipula dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, fissando i principi ai quali ispirare la regolamentazione attuativa e le necessarie convenzioni con gli enti interessati».
L’incipit dell’intesa spiega chiaramente il suo oggetto e le sue finalità. Il carattere integrativo del Protocollo rispetto all’Accordo del 2011 impone di leggere congiuntamente i due testi. Il contratto del 2013 non si occupa di molte materie definite nel 2011, come la funzione del ccnl, le materie delegate al contratto aziendale e le sue finalità, la titolarità e l’efficacia soggettiva degli accordi aziendali ed i metodi di verifica del consenso e del dissenso dei lavoratori a questo livello, le clausole di uscita dal ccnl da parte della contrattazione collettiva decentrata. Ovviamente per queste materie occorrerà rifarsi al testo del 2011.
Il Protocollo del 2013 fissa principi generali che dovranno poi essere attuati dalle singole categorie tramite regolamenti. Questa tecnica, già utilizzata nel 2011, è qui ribadita. Tuttavia, rispetto all’Accordo di due anni fa, vi è una definizione più dettagliata delle regole che dovrebbe vincolare le Federazioni, che vedono qui ridotta la propria autonomia rispetto all’intesa del 2011. Quest’ultima, infatti, lasciava spazi assai più ampi ai sindacati di categoria e consentiva quindi una attuazione molto diversificata a livello dei singoli settori produttivi.
4. I principi fondamentali che scaturiscono dall’Accordo del 2011 e dal Protocollo del 2013 sono tre: a) una rappresentatività verificata in fase di apertura delle trattative, di presentazione della piattaforma sindacale e di sottoscrizione della ipotesi di accordo; b) l’approvazione da parte dei lavoratori interessati della ipotesi di accordo con una consultazione certificata; b) l’esigibilità del ccnl stipulato secondo queste regole.
Per quanto attiene al primo principio, indubbiamente l’accordo richiama le regole valide nel lavoro pubblico e che hanno già avuto una positiva sperimentazione. Tuttavia, rispetto al d.lgs. 165/2001, vi è una significativa differenza. Ai sensi dell’art. 43 di questo decreto legislativo, il contratto collettivo è stipulato dall’Aran se esso è sottoscritto da sindacati che rappresentino una quota predefinita di lavoratori. Nel settore privato, invece, sarà necessaria l’approvazione della ipotesi di accordo da parte della maggioranza semplice dei lavoratori interessati. Vi è, quindi, un meccanismo a maggiore tasso di democrazia, perché la rappresentatività accertata nelle fasi precedenti alla sottoscrizione del contratto non sarà sufficiente a renderlo operativo e richiederà sempre il consenso dei lavoratori. In questo caso, dunque, i sindacati, anche se effettivamente rappresentativi, si espongono ad un ulteriore fase di confronto e di verifica democratica con la base, per misurare il grado di approvazione che ottengono in relazione al singolo contratto che intendono stipulare. La rappresentatività “presunta” sembra dunque essere definitivamente tramontata e sostituita da forme incisive di verifica a diversi livelli.
La misurazione della rappresentatività è affidata all’Inps per la raccolta delle deleghe relative ai contributi sindacali tramite le dichiarazioni aziendali (Uniemens) e ad organismi dei sindacati per quanto attiene i risultati nelle elezioni delle rsu. I dati raccolti, relativi ad ogni organizzazione e nell’ambito di applicazione del contratto collettivo, verranno trasmessi al Cnel che effettuerà la ponderazione tra iscritti e voti al fine di determinare il livello effettivo di rappresentatività di ogni singola organizzazione ed in relazione a ciascuna categoria a cui si riferisce il contratto collettivo nazionale. Si tratta di un meccanismo complesso, che prevede peraltro la presenza di soggetti terzi (e di grande autorevolezza come il Cnel) che dovrebbero garantire l’autenticità dei dati e la correttezza della misurazione ponderata. Tra l’altro, il Protocollo stimola i sindacati a verificare l’effettiva consistenza rappresentativa ai fini della ammissione alle trattative, della presentazione delle piattaforme non unitarie e per sottoporre ad approvazione l’ipotesi di accordo. Questa esigenza di “contarsi” a fini negoziali dovrebbe essere un stimolo ulteriore a garantire la regolarità delle elezioni nelle rsu e la genuinità dei dati da esse risultanti.
La rappresentatività viene calcolata in base alla media tra dato associativo (percentuale delle iscrizioni certificate) e dato elettorale (percentuale dei voti ottenuti sui voti espressi nelle elezioni delle rsu future o che sono state elette nei 36 mesi precedenti la data di rilevazione dei consensi ottenuti). In questo caso, dunque, vi è la riproposizione del sistema utilizzato nel lavoro pubblico. Esso, costituisce un efficace compromesso tra la volontà della Cisl di privilegiare i propri iscritti e quello della Cgil di rivolgersi all’intero mondo del lavoro. Nelle aziende dove esistono soltanto le rsa o non vi sia alcuna forma di rappresentanza «sarà rilevato il solo dato degli iscritti (deleghe certificate) per ogni singola organizzazione». Una soluzione questa che prende atto della impossibilità di generalizzare il sistema delle rsu (che, pur diffuso, non è stato in grado in venti anni di sostituire completamente le rsa) e che prevede, anche in questo caso, l’unica verifica possibile (il numero degli iscritti).
Il sistema di rilevazione (con la media tra dato associativo e quello elettorale) è dettagliamente regolato per la definizione della percentuale minima di rappresentatività che il sindacato deve conseguire per essere ammesso alle trattative. Il Protocollo è meno esaustivo per quanto attiene al calcolo delle percentuali per presentare le piattaforme sindacali e per sottoscrivere l’ipotesi di accordo che dovrà poi essere sottoposta all’approvazione dei lavoratori interessati. L’intenzione delle parti stipulanti, peraltro, è chiara. Il sistema di rilevazione della rappresentatività è lo stesso per tutte le fasi contrattuali (ammissione alle trattative, presentazione della piattaforma, sottoscrizione della ipotesi di accordo). Tra l’altro, nel punto 3 del Protocollo relativo alla «Titolarità ed efficacia della contrattazione», si parla di «rappresentanza, come sopra determinata». Ora a parte la imprecisione linguistica dell’accordo, che sembra usare i termini di rappresentanza e rappresentatività come se fossero del tutto fungibili, non vi è dubbio che, con questo rinvio, si intende riaffermare il meccanismo di verifica previsto per essere ammessi alle trattative.
L’Accordo prevede tre “filtri” di controllo della capacità rappresentativa del sindacato. Il primo è quello per essere abilitato alla fase negoziale, a cui possono accedere solo le organizzazioni sindacali «che abbiano, nell’ambito di applicazione del contratto collettivo di lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5%» (punto 1 del Protocollo, nella parte relativa alla «Titolarità ed efficacia della contrattazione»). La percentuale, dunque, identica a quella del lavoro pubblico, è definita con riferimento al «settore» (punto 1 dell’AI del 2011) e quindi in ambito nazionale ed in relazione a tutti i lavoratori della categoria. Essa è calcolata con la media tra iscritti e voti e «con un peso pari al 50% per ognuno dei due dati». La quota numerica non è molto alta e dovrebbe consentire agevolmente la partecipazione di Cgil, Cisl e Uil (e probabilmente della Ugl), rendendo più difficile la partecipazione di altri sindacati (ad es. Fismic e Cobas), che hanno vigorosamente protestato. Tuttavia nulla potrebbe impedire a queste organizzazioni di acquisire in futuro un numero di iscritti e di voti che li abiliti a partecipare alle trattative. Il sistema, dunque, non è ingessato ed è aperto alla concreta evoluzione dei rapporti di forza tra i sindacati ed alla loro capacità rappresentativa.
Il secondo criterio selettivo riguarda la presentazione delle piattaforme, la cui disciplina di dettaglio è rimessa al regolamento che verrà emanato dalle Federazioni di categoria. L’Accordo prevede che i sindacati dovranno favorire «la presentazione di una piattaforma unitaria». Tuttavia, se questo non sarà possibile, «la parte datoriale favorirà, in ogni categoria, che la negoziazione si avvii sulla base della piattaforma presentata da organizzazioni sindacali che abbiano complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50%+ 1». L’innovazione, che non è prevista nel lavoro pubblico, ha un duplice effetto. Da un lato essa intende evitare la paralisi in caso di conflitti tra organizzazioni sindacali tutte ugualmente rappresentative, consentendo di attivare la procedura negoziale a condizione che, in base ad un principio democratico, i sindacati favorevoli a trattare rappresentino la maggioranza dei lavoratori coinvolti. Dall’altro, essa vincola anche l’associazione imprenditoriale che non potrà scegliersi liberamente l’interlocutore, magari escludendo un sindacato fortemente rappresentativo. Le trattative, infatti, dovranno essere condotte solo con i sindacati che abbiano i requisiti di legittimazione democratica descritti (50% + 1 di rappresentatività sempre riferito ai lavoratori appartenenti alla categoria).
Infine, l’ultimo filtro è costituito dal fatto che l’ipotesi di accordo da presentare alla consultazione dei lavoratori deve essere sottoscritta da organizzazioni che rappresentino «almeno il 50% + 1 della rappresentanza, come sopra determinata». Anche in questo caso, dunque, il principio democratico della maggiore rappresentatività verificata è la premessa per poter chiedere ai lavoratori l’approvazione o meno di quanto pattuito.
Infine l’ipotesi di accordo dovrà essere sottoposto alla «consultazione certificata delle lavoratrici e dei lavoratori», con necessità della sola maggioranza semplice per la approvazione. Le categorie definiranno nel dettaglio le modalità di consultazione, che non necessariamente dovranno avvenire tramite referendum. Non vi è dubbio, tuttavia, che qualunque sia il mezzo utilizzato, occorrerà garantire la libertà di espressione della opinione del singolo lavoratore e la individuazione della maggioranza dei consensi o dissensi. Il tutto dovrà avvenire con la partecipazione di soggetti diversi dai sindacati che attestino la regolarità delle procedure e dei risultati.
Va detto che le regole descritte, pur essendo previste genericamente per le organizzazioni sindacali firmatarie dell’accordo, sono modulate soltanto per misurare la rappresentatività dei sindacati di categoria dei lavoratori. Infatti la rappresentatività è calcolata con riferimento alla media tra dato associativo ed elettorale, in base alle iscrizioni risultanti dalle deleghe conferite a livello aziendale dai singoli lavoratori per i contributi sindacali ed ai voti ottenuti nelle elezioni delle rsu. Il sistema, dunque, non è pensato per misurare la rappresentatività delle organizzazioni imprenditoriali.
Il Protocollo, infine, non si occupa delle imprese non affiliate a Confindustria, come la FIAT. Per la casa produttrice di auto le regole contrattuali sono quelle definite insieme ai sindacati dei lavoratori che le accettano e dall’art. 19 dello statuto dei lavoratori, salvo le sorprese che potrebbero derivare il prossimo 2 luglio dalla decisione della Corte Costituzionale sulla norma dello statuto dei lavoratori. Questa dualismo nei sistema della contrattazione collettiva pone delicati problemi di non facile soluzione, se non tramite l’intervento della legge.
5. La rappresentatività verificata sulla maggioranza dei lavoratori del settore e l’approvazione, sempre a maggioranza, del contratto collettivo delineano un sistema a forte contenuto democratico. Lo scopo, inoltre, è quello di evitare accordi separati. Il Protocollo, infatti, introduce meccanismi che stimolano la aggregazione dei sindacati nella fase di presentazione delle piattaforme ed in quelle successive, perché premiano il criterio maggioritario ed escludono il sindacato dissenziente che non ha una forza rappresentativa tale da essere maggioranza. Infine, la necessità dell’approvazione finale dei lavoratori interessati obbliga l’organizzazione sindacale contraria ad accettare il contratto collettivo approvato.
Se queste regole fossero state applicate nella nota vicenda Fiat, i contratti stipulati da alcuni sindacati – che insieme rappresentavano la gran parte dei lavoratori coinvolti – e poi approvati con i referendum sarebbero diventati vincolanti anche per la Fiom.
Tuttavia il Protocollo non impedisce che vi possono essere trattative separate e C.C.N.L. che riguardano soltanto i lavoratori iscritti ai sindacati coinvolti. Il sistema delineato dall’Accordo del 2013 presuppone determinati indici di rappresentatività nelle varie fasi negoziali (trattative, presentazione di piattaforme, sottoscrizione delle ipotesi di accordo). Se questi parametri non sono presenti per carenza dei requisiti numerici o percentuali da parte dei sindacati coinvolti o per contrasti tra essi che non consentono di raggiungere la soglia minima di rappresentatività, il Protocollo non può funzionare. In queste condizioni, dunque, potrebbero esservi contratti collettivi separati ad efficacia soggettiva limitata ai lavoratori iscritti ai sindacati che li sottoscrivono.
Questa situazione potrebbe verificarsi anche qualora un’ipotesi di accordo unitaria o rappresentativa del 50% +1 dei lavoratori coinvolti non venga approvata a maggioranza semplice. Tuttavia, in questi casi, si aprirebbero delicati problemi all’interno degli stessi sindacati che probabilmente porterebbe alla riapertura delle trattative piuttosto che a stipulare un accordo separato.
Vi è poi un ulteriore problema che potrebbe rendere complessa l’applicazione del protocollo del 2013. In esso sono previste percentuali di rappresentatività molto elevate (50% + 1 dei lavoratori della categoria) che non necessariamente Cgil, Cisl e Uil saranno in grado di raggiungere anche se agiranno unitariamente. Questa situazione potrebbe verificarsi in settori produttivi a basso livello di sindacalizzazione e/o di voti espressi nelle elezioni delle rsu. In tali ipotesi, l’Accordo del 2013 potrebbe essere applicato soltanto senza considerare le soglie in esso definite ed in considerazione del fatto che le organizzazioni sindacali che presentino le piattaforme e sottoscrivano i contratti siano le sole dotate di un elevato tasso di rappresentatività, anche se non raggiungono il 50% + 1.
Nella intesa tra Cgil, Cisl e Uil allegata all’Accordo del 2011 si stabiliva che sarebbero stati definiti specifici regolamenti sulle procedure per i nuovi contrattuali, al fine di coinvolgere gli iscritti e tutti i lavoratori nella fase di realizzazione di piattaforme e per l’approvazione dell’ipotesi di accordo. Si prevedeva, inoltre, che doveva essere previsto «il coinvolgimento delle lavoratrici e dei lavoratori in caso di rilevanti divergenze interne alle delegazioni trattanti». L’ Accordo del 2013 ridefinisce le regole per l’approvazione delle ipotesi di accordo, ma nulla dice per quanto attiene alla formazione delle piattaforme ed alla risoluzione dei contrasti tra le delegazioni sindacali in fase di trattativa. Tuttavia il Protocollo del 31 maggio 2013 non ha certo eliminato il patto stipulato tra Cgil, Cisl e Uil nel 2011. Ed è quindi auspicabile che le singole categorie, nel definire con apposito regolamento «le modalità di definizione della piattaforma e delle delegazione trattante e le relative attribuzioni» (punto 3, della parte sulla «Titolarità ed efficacia della contrattazione»), regolino anche gli aspetti connessi alla consultazione dei lavoratori in questa fase e per risolvere eventuali contrasti tra i sindacati nel merito dei contratti collettivi. La definizione preventiva di meccanismi di soluzione dei conflitti e di consultazione dei lavoratori dovrebbe favorire la presentazione di proposte unitarie o, quantomeno, rappresentative della maggioranza dei lavoratori interessati.
6. Il Protocollo ribadisce che, per verificare la effettiva rappresentatività sindacale, un ruolo centrale é svolto dalle rappresentanze sindacali unitarie. Il testo ribadisce molte regole già contenute negli AI esistenti e riaffermate in quello del 2011. La novità più consistente è quella della formazione della rsu esclusivamente con il sistema elettivo, con la eliminazione della designazione del «terzo» dei componenti delle rappresentanze da parte del sindacato. L’affermazione di questo principio – che non era contenuto nell’AI del 28 giugno 2011 (dove anzi si confermavano le regole prima vigenti) – è espressa con l’affermazione secondo cui «le RSU saranno elette con voto proporzionale».
Si tratta di un’innovazione di rilievo che incrementa il tasso di democraticità nella formazione della rappresentanza ed ampia la potenziale quota di partecipazione per tutti i sindacati, inclusi quelli aziendali che non sono funzionalmente collegati a Cgil Cisl e Uil. Le organizzazioni sindacali diverse da quelle storiche potrebbero quindi estendere in questo modo la propria capacità rappresentativa nella misura in cui riescono a raccogliere consensi tra i lavoratori.
7. I C.C.N.L. sottoscritti dai sindacati che rappresentino almeno il 50% +1 dei lavoratori della categoria e approvati dalla maggioranza semplice degli interessati «saranno efficaci ed esigibili» e la sottoscrizione del contratto «costituirà l’atto vincolante per entrambe le Parti». L’obbligatorietà dell’intesa è fortemente ribadita ed impone a tutti i sindacati di rispettarla, anche a quelli che non avevano sottoscritto l’ipotesi di accordo o si erano battuti perché non fosse approvata in sede di consultazione. In sostanza anche l’organizzazione dissenziente deve rispettare la decisione assunta dai sindacati più rappresentativi e convalidata dalla maggioranza dei lavoratori. Il dissenso, come si è già spiegato in precedenza, dovrebbe essere espresso e risolto nelle fasi negoziali precedenti. Questo meccanismo dovrebbe, insieme ai «filtri» di rappresentatività già descritti, evitare gli accordi separati.
Il Protocollo afferma con forza che «il rispetto delle procedure» di negoziazione impone «la piena esigibilità per tutte le organizzazioni aderenti alle parti firmatarie della presente intesa» ed impegna le Confederazioni e le Federazioni di categoria «a dare piena applicazione e a non promuovere iniziative in contrasto agli accordi così definiti». E la riaffermazione solenne che i contratti sottoscritti non potranno essere contestati con scioperi o altre azioni di lotta sindacale o anche iniziative giudiziarie per tutto il tempo di vigenza dei C.C.N.L. Pacta sunt servanda, soprattutto per chi non era d’accordo con il contenuto del contratto. Per realizzare questo obiettivo i contratti collettivi «dovranno definire clausole e/o procedure di raffreddamento finalizzate a garantire, per tutte le parti, l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base di principi stabiliti con la presente intesa».
Questa parte del Protocollo deve essere letta insieme al punto 6 dell’AI del 28 giugno 2011, secondo il quale le clausole di tregua sindacale «hanno effetto vincolante esclusivamente per tutte le rappresentanze sindacali dei lavoratori ed associazioni sindacali…. e non per i singoli lavoratori». L’ordinamento intersindacale, dunque, conferma che le clausole di tregua non sono obbligatorie per i singoli, ma solo per i sindacati. E le eventuali sanzioni potranno riguardare solo le organizzazioni sindacali, ad es. in termini di perdita di diritti e prerogative previste dai contratti collettivi e con esclusione di quelli garantiti dalla legge che è fuori della disponibilità delle parti collettive. Le sanzioni non potranno essere estese ai lavoratori, come invece è previsto in alcuni contratti collettivi stipulati con la Fiat. Interessante è anche la previsione delle «procedura di raffreddamento» che, in coerenza con l’esperienza già utilizzata nella regolamentazione dello sciopero nei servizi essenziali, inibisca ai sindacati la promozione di azioni di lotta se prima le parti non si siano incontrate e non abbiano tentato di risolvere in via conciliativa le controversie esistenti.
Lo sciopero, dunque, secondo una linea di tendenza già in atto da molti anni, dovrebbe costituire una forma di lotta residuale, non utilizzabile durante la vigenza del contratto collettivo se non in casi del tutto eccezionali o per ragioni diverse dai contenuti e dall’applicazione del ccnl. L’accettazione da parte del sindacato di sanzioni in caso di violazione della clausole di tregua o delle procedure di raffreddamento rappresenta una importante assunzione di responsabilità nel non promuovere iniziative contro il contratto approvato con criteri di rappresentatività verificata e basato sul consenso della maggioranza dei lavoratori.
8. Nei primi commenti si é anche ipotizzato che il Protocollo del 2013 costituirebbe l’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione (senza quindi la necessità di un intervento legislativo) o, al contrario, che esso renderebbe ormai ineludibile approvare una legge sindacale che attui la disciplina costituzionale.
Indubbiamente gli Accordi del 2011 e 2013 designano un sistema diverso dall’art. 39 Cost. (statuto democratico del sindacato, personalità giuridica, rappresentanze unitarie proporzionali agli iscritti per stipulare contratti collettivi ad efficacia erga omnes). Tuttavia, gli Accordi sono ispirati al «principio democratico» (ciascun sindacato «pesa» in proporzione ai propri iscritti ed ai consensi che ottiene nelle elezioni delle rsu) che certamente è espresso dalla disposizione costituzionale. Dunque, una riforma che modificasse l’art. 39 delegando ad una legge ordinaria la regolazione del sistema contrattuale magari con la ricezione di quanto definito dai sindacati più rappresentativi sarebbe un’ipotesi plausibile (anche se non facilmente realizzabile).
Ma, ai fini del funzionamento delle relazioni industriali, una legge é indispensabile? Gli Accordi del 2011 e 2013, con riferimento al settore industriale, riguardano la stragrande maggioranza delle imprese e dei lavoratori coinvolti. Se, come sembra, essi venissero estesi ad altri settori importanti (ad esempio terziario, banche ecc.), l’effetto regolativo sarebbe ulteriormente amplificato. Inoltre, l’esperienza storica dimostra che gli Accordi stipulati dalle organizzazioni sindacali – se effettivamente voluti – costituiscono un valido strumento di regolazione del sistema contrattuale almeno fino a quando sussistono le condizioni politiche e sindacali che ne costituiscono il presupposto. Dunque l’attuazione dell’art. 39 della Costituzione non sembrerebbe una questione essenziale.
Tuttavia il limite della disciplina tramite contratti collettivi a livello interconfederale è l’assenza di regole certe che ne consentano l’applicazione nel sistema giuridico statuale. La recente decisione assunta dalla Tribunale di Roma nella sentenza prima citata ne é un esempio evidente. In futuro, la violazione del contenuto degli AI del 2011 e del 2013 o la loro mancata attuazione in sede di categoria in relazione ai principi nei primi definiti non potrebbero essere censurati dinanzi ad un giudice ordinario se non in casi del tutto eccezionali o utilizzando sofisticate interpretazioni giuridiche che incrementerebbe il grado di instabilità e di incertezza del sistema. D’altra parte, vi sono settori del mondo imprenditoriale che si muovono al di fuori dell’ordinamento intersindacale (come nel caso della Fiat). I contenuti dei patti sottoscritti nello scorso biennio non sono estensibili a questi soggetti. Vi è quindi il rischio di legittimare modelli alternativi di contrattazione collettiva che certo non semplificano il quadro regolativo e, in tale ambito, consentono anche di escludere dalla contrattazione soggetti sindacali dotati di elevata rappresentatività (come nel caso della Fiom).
Forse é arrivato il momento di applicare la norma costituzionale e di rendere coerenti l’ordinamento statuale e quello sindacale con una legge che realizzi il collegamento tra essi rispettando la loro autonomia ma anche riaffermando i principi recentemente espressi (rappresentatività verificata, approvazione dei contratti con il consenso dei lavoratori, efficacia generalizzata degli accordi).
Valerio Speziale