La siderurgia è sull’orlo del baratro e la situazione rischia di diventare drammatica su più fronti. A partire dall’impatto sociale su migliaia di lavoratori, a quello economico, per la cancellazione dalla realtà nazionale di un settore strategico dell’economia italiana, che rappresenta un pezzo importante di storia industriale del paese. L’unica via d’uscita è un serio intervento di politica industriale del settore. E’ quanto credono i delegati di Fim, Fiom e Uilm del comparto, che si sono riuniti a Roma per valutare le prospettive di una crisi di cui non si vede nemmeno da lontano la conclusione.
Il futuro, occupazionale e produttivo, della siderurgia è avvolto nella nebbia e l’unica soluzione, a giudizio dei sindacati, è una politica industriale di sistema, basata su sinergie tra le varie realtà industriali che costituiscono il patrimonio del paese. Le crisi aziendali, infatti, lamentano i rappresentanti dei lavoratori, non possono essere risolte una alla volta tappando buchi, serve un coordinamento e una politica settoriale. Per questo, è stato accolto positivamente l’avvio del tavolo sulla crisi della siderurgia, che dovrà essere esclusivamente tecnico, ribadiscono i sindacati, per ottenere interventi concreti che scongiurino la perdita di un settore primario dell’economia italiana.
Il settore dell’industria, infatti, oltre a vantare il secondo posto in Europa per la produzione di acciaio e il primo per la produzione di forno elettrico, eccelle per straordinaria professionalità, ampia flessibilità e importante capacità di adattamento ai contesti di mercato. Inoltre, dà lavoro a 70mila addetti, tra diretti e indiretti, e negli ultimi cinque anni, dal 2007 al 2011 ha realizzato in Italia investimenti per oltre 5,5 miliardi di euro, di cui quasi un miliardo in attività legate alla tutela dell’ambiente e alla sostenibilità di lungo periodo.
La situazione drammatica dei vari gruppi industriali e realtà aziendali presenti sul territorio nazionale è stata ben descritta dai delegati di Fim, Fiom e Uilm. La condizione del settore emersa è disastrosa: ricorso massiccio alla cassa integrazione, giunta ormai al termine, minaccia sempre più frequente di chiusure, delocalizzazioni, esuberi e procedure di mobilità, nel migliore dei casi risolte con l’applicazione di contratti di solidarietà. A tutto questo si aggiunge la perdita di competitività rispetto alle nuove economie emergenti, quali Cina e India, dovuta ai minori costi delle materie prime, dell’energia, del lavoro, della burocrazia, ma anche di modesti, a volte addirittura nulli, vincoli ambientali.
Tutte le realtà sindacali dei diversi stabilimenti industriali hanno lamentato, però, come prima causa della crisi del comparto non tanto i problemi di mercato o i cali di produzione industriale, né la mancanza di competitività delle realtà coinvolte, ma piuttosto un’assenza assoluta di scelte di politica industriale da parte dell’esecutivo, in grado di rilanciare la competitività e la produttività del settore.
Dall’assemblea è emerso che la crisi dell’Ilva rappresenta solo la punta dell’iceberg di una crisi che coinvolge tutte le industrie del comparto. Le cause sono di vario tipo, da una gestione aziendale discutibile, come quella del gruppo Riva che ha giocato la partita della competitività sull’abbassamento dei costi a spese della sostenibilità ambientale, alla crisi degli assetti societari proprietari, come quella che tiene ferme le Acciaierie speciali di Terni, pur essendo l’unico produttore di acciaio inox a ciclo integrato in Italia all’avanguardia per innovazione tecnologica. Il problema in questi casi non è solo quello di salvaguardare l’occupazione, dicono i sindacati e le Rsu, ma difendere una produzione unica, fiore all’occhiello della siderurgia in Italia e in Europa.
A questi casi si aggiunge la Lucchini, dove l’abbandono del gruppo Severstal ha trascinato lo stabilimento di Piombino in una gravissima crisi finanziaria, tanto che oggi si trova in amministrazione straordinaria. Il problema anche in questo caso non è da attribuire al calo degli ordini, dal momento che il gruppo Lucchini, insieme a quello di Taranto, sono gli unici a produrre acciaio liquido da ciclo integrale, oltre a vantare la produzione strategica di rotaie: tutte le infrastrutture per i collegamenti ferroviari dell’Italia vengono dallo stabilimento di Piombino.
Il settore siderurgico, nel corso degli anni, si è anche molto indebolito a causa di operazioni strategiche da parte di alcune multinazionali finalizzate esclusivamente al profitto senza alcuna considerazione per il territorio. Infatti, spiegano i sindacati, le multinazionali hanno acquisito in passato stabilimenti a prezzi stracciati, si sono appropriate delle capacità industriali e poi hanno deciso di chiudere e delocalizzare spostando le produzioni in altre realtà con minori costi del lavoro e dell’energia. Sono questi i casi del gruppo Berco, controllato da Thyssen Krupp, o di Alcoa che dal 1° gennaio ha chiuso lo stabilimento sardo di Portovesme, mettendo in cigs 496 lavoratori e in difficoltà oltre 300 dell’indotto ai quali la Regione Sardegna non ha ancora riconosciuto la cassa in deroga. Le Rsu hanno evidenziato, anche in questo caso, la negligenza del governo che non ha dato ancora alcuna risposta concreta alla drammatica situazione di crisi del territorio, nonostante il Piano Sulcis siglato nel 2012 da ministero dello Sviluppo economico, Regione, Provincia e dai 23 Comuni del territorio. L’Alcoa, unico presidio produttivo di alluminio in Italia, rimane in pieno stallo e dopo un anno e mezzo è sfumata definitivamente la trattativa di vendita con Klesch.
Un altro caso di scelta di delocalizzare per ridurre i costi è quello del gruppo Beltrame, primario produttore in Europa di laminati mercantili e proflilati speciali per i comparti della cantieristica navale, che negli ultimi hanno ha dimezzato la propria produzione e nell’ultimo piano industriale ha previsto la chiusura dell’acciaieria di San Didero (To).
La situazione di crisi del settore si fa sentire anche a livello europeo, tanto che la Commissione Ue ha presentato, lo scorso 11 giugno, il “Piano d’azione Acciaio” per rilanciare la domanda e intervenire sui costi dell’energia, che rappresenta fino al 40% dei costi operativi di produzione, e sul quadro della politica del clima dell’Ue. Le parti sociali, però, hanno forti perplessità sul fatto che non sembra esserci una piena condivisione all’interno del gruppo di lavoro, tra le associazioni di produttori di acciaio e i rappresentanti degli stati membri, su azioni più incisive da intraprendere nell’immediato e il rischio è che il piano rimanga solo un insieme di buone pratiche e proposte per il settore senza soluzioni alle diverse situazioni di crisi.
Francesca Romana Nesci