La riforma dell’art. 117 della Costituzione, che i saggi di Quagliariello hanno ventilato con il documento consegnato al Governo il 7 settembre scorso[1], ha, tra le altre cose, risvegliato l’entusiasmo di chi vede nella competenza esclusiva delle Regioni sulla formazione professionale[2] un ostacolo al decollo del contratto di apprendistato.
E così, si sono alzate alcune voci che hanno chiesto di sottrargliela. Ciò per due ragioni.
La prima è in realtà un’accusa: i bastoni posti dalle Regioni tra le ruote del legislatore nazionale quando ha tentato di semplificare la normativa in materia. Come ad esempio sarebbe accaduto nel 2008, quando nove Regioni hanno sollevato una questione di costituzionalità in punto di formazione aziendale degli apprendisti “di mestiere”, in quanto affidata alla contrattazione collettiva dalla riforma Biagi (d.lgs. 276 del 2003).E così, con sentenza n. 176 del 2010, la Corte Costituzionale ha stabilito che non è possibile tracciare una linea netta tra offerta formativa pubblica, di competenza delle Regioni, e formazione aziendale, di competenza dei sindacati: di conseguenza, argomenta la Consulta, la competenza esclusiva delle Regioni in materia di formazione professionale consente alle stesse di interferire su ogni profilo la riguardi [3].
La seconda è la disomogeneità che, per effetto dell’art. 117 Cost., si creerebbe in punto di disciplina della formazione professionale da Regione a Regione. Ciò in quanto l’azienda che assume apprendisti: in caso di apprendistato per la qualifica e il diploma professionale, deve attenersi agli standard minimi di formazione fissati dalla Regione; in caso di apprendistato di mestiere, deve tener conto (come visto) dell’eventuale offerta formativa della Regione; in caso di apprendistato di alta formazione e ricerca, deve osservare apposite regolamentazioni regionali in punto di formazione, fermo restando la facoltà di stipulare convenzioni con istituzioni formative nell’attesa che esse intervengano. E così, poiché ciascuna azienda ha sede in Regioni diverse o comunque unità produttive in Regioni diverse, lavoratori assunti per lo svolgimento di medesime mansioni sarebbero soggetti a discipline formative diverse[4].
Ebbene, chi invoca la riforma dell’art. 117 Cost. nel senso appena visto, non ha in teoria tutti i torti.La domanda però è: tale riforma farebbe davvero decollare il contratto di apprendistato? E in ipotesi positiva, in quale misura, visto che l’offerta formativa pubblica nella pratica è inesistente o, se esiste, è svolta male? La risposta è negativa. Ed infatti, le questioni sollevate delle Regioni al massimo hanno dato e forse daranno pensiero ai giudici della Consulta. Ma, di certo non sono, nella pratica, la causa del mancato decollo del contratto di apprendistato, che invece soffre ben altri lacciuoli.
Il primo è l’eccesso di limiti imposti dalla legge: ad esempio, complicate modalità di assunzioni, obbligo della formazione aziendale e quindi della presenza di un tutor, del piano formativo individuale, di registrazione dell’avvenuta formazione, obbligo di stabilizzazione di una percentuale di apprendisti, ed infine obbligo di conversione del rapporto di lavoro.
Il secondo è una disinvolta tendenza a riformare la materia , che per questo dà grattacapi ai consulenti della aziende che intendono assumere apprendisti: la stratificazione legislativa prende del resto le mosse dagli articoli 2130-2134 del codice civile come dalla legge n. 25 del 1955 e arriva al d.lgs. 167 del 2011 nonché alle sue successive modificazioni.
Il terzo è di ordine strutturale: l’inutilità di tre tipologie di apprendistato. Ne basterebbe una sola, fondata sull’alternanza scuola-lavoro[5], come accade ad esempio in Germania nelle scuole tecniche di specializzazione (Fachhochschule).
In definitiva, certamente bisogna evitare di “non riformare” la nostra Costituzione, laddove nuove necessità lo richiedano. Perché il rischio è che la Carta diventi “una preziosa macchina del tempo con un motore non più adatto ai tempi”come ammonisce p. Occhetta nel suo recente articolo. [6]
Ma togliere alle Regioni la competenza esclusiva in materia di formazione professionale non darebbe alcun sprint a questo motore. Si tratta, in fondo, solo di riformare con buon senso.
Ciro Cafiero
Collaboratore della cattedra di diritto del lavoro presso la Luiss
2 Così dopo la riforma del Titolo V della Costituzione per effetto della legge costituzionale n. 3 del 2001.
3 Già con sentenza n. 50 del 2005 , a fronte della questione di costituzionalità sollevata da alcune Regioni in ordine agli articoli 1, 2 e 3 della alla legge delega (del d.lgs. 276 del 2003) n . 30 del 2003 nonché degli articoli 2,3,12,13,14,da 47 a 60 e da 70 a 74 del d.lgs. 276 del 2003, la Corte Costituzionale aveva stabilito: “se è vero che la formazione all’interno delle aziende inerisce al rapporto contrattuale, sicché la sua disciplina rientra nell’ordinamento civile, e che spetta invece alle Regioni e alle Province autonome disciplinare quella pubblica, non è men vero che nella regolamentazione dell’apprendistato né l’una né l’altra appaiono allo stato puro, ossia separate nettamente tra di loro e da altri aspetti dell’istituto. Occorre perciò tener conto di tali interferenze”. Dal canto suo, il legislatore del d.lgs. 167 del 2011 (testo unico sull’apprendistato) ha poi “codificato” il potere delle Regioni di integrare l’offerta formativa aziendale dell’apprendistato di mestiere con l’offerta formativa pubblica.
[4] Contro tale convinzione, ad onor del vero, non depongono le linee guida definite in sede di Conferenza permanente tra Stato e Regioni, per omogeneizzare la formazione dell’apprendistato di mestiere su delega del d.l. 76 del 2013 conv. dalla l. 99 del 2013 (pacchetto lavoro). Ed infatti, a quanto consta, a tali linee avrebbero aderito solamente due regioni: per tutte le altre, dunque, trovano applicazione i principi enunciati nello stesso d.l. 76 del 2013, ma nella diversa declinazione che ciascuna Regione vi darà.