E’ lo strumento di politica retributiva nazionale più diffuso al mondo. Ce l’hanno 22 dei 28 paesi della Unione europea e, nel resto del mondo, anche Stati Uniti, Giappone, Corea, Canada e Australia. Eppure, in Italia non se ne parla quasi mai. Neppure la decisione della Germania, con il recente accordo fra Merkel e Spd per la grande coalizione, di unirsi al club ha riacceso in Italia un dibattito sul salario minimo. Si è parlato di reddito minimo garantito (esteso a tutta la popolazione) ma non di uno strumento, assai più facilmente realizzabile, che impedisca alle buste paga, per chi il lavoro lo ha, di scendere sotto un livello prefissato. Anche se il salario minimo sembrerebbe lo strumento più adatto ad evitare che lo svuotamento dei contratti nazionali (che in Italia, oggi, coprono la quasi totalità dei dipendenti, al contrario di quanto avviene in altri paesi) a favore dell’assai caldeggiata contrattazione decentrata, si traduca in una caccia indiscriminata al taglio dei salari.
Non è necessariamente un segno dell’arretratezza italiana. Anche paesi di solido welfare, come Svezia e Danimarca, ne sono privi. E da sempre, fra gli economisti, infuria il dibattito fra chi sostiene che il salario minimo, vincolando le aziende, riduce l’incentivo ad aumentare l’occupazione e chi replica che, soprattutto nell’attuale crisi, il salario minimo servirebbe a sostenere una domanda asfittica e favorire la ripresa. Tuttavia, senza grandi sconquassi, c’è un po’ dappertutto. Il più alto in Australia (oltre 13 euro l’ora). Negli Usa corrisponde a 5,64 euro, in Giappone a 7,31. In Francia è a 9,43 euro l’ora, poco sopra Belgio e Olanda (9,10 e 9,07 euro). Assai più magro, ma c’è anche in paesi più deboli dell’Italia: 3,91 euro in Spagna, 2,92 euro in Portogallo, 3,35 euro in Grecia.
Il dato in euro, in realtà, è significativo fino ad un certo punto. Corretto per l’effettivo potere d’acquisto, il salario minimo più alto al mondo è quello francesi: 8,52 euro l’ora, mentre quello australiano si ferma a 8,42. Quello americano si irrobustisce un po’ a 5,89 euro, mentre quello giapponese si riduce di parecchio a 5,20 euro. Per Spagna, Portogallo e Grecia, il confronto con il potere d’acquisto si traduce in salari minimi effettivi un po’ più consistenti di quanto non direbbe il solo valore nominale.
Il potere d’acquisto di un salario minimo interessa, tuttavia, in prima battuta, soprattutto i lavoratori. Per capirne l’impatto – e l’eventuale vincolo – sulla politica salariale complessiva è più utile confrontare il salario minimo con quello che è il salario mediano del paese. Non il salario medio, che metterebbe nel conto anche le retribuzioni più alte, ma quello mediano. Ovvero il salario che taglia esattamente a metà la piramide retributiva nazionale: metà dei lavoratori dipendenti guadagna di più, metà guadagna di meno.
Su questa base, il salario minimo, nei paesi comparabili con l’Italia, si aggira poco sopra il 60 per cento del salario mediano. Il 62 per cento in Francia e Usa (ma, se si guardasse al salario medio, sarebbe il 50 per cento), il 67 per cento in Spagna e in Olanda. Invece, solo il 36 per cento in Gran Bretagna, dove il governo conservatore appare un po’ in ritardo. E la Germania? Se si guarda al resto dell’eurozona, il nuovo governo tedesco, indicando un salario minimo di 8,50 euro l’ora, ha giocato, nonostante le polemiche degli imprenditori, un po’ al ribasso. Non solo, in termini nominali, la cifra concordata è inferiore a quella francese, belga, olandese. Ma, confrontata ad un salario mediano nazionale di 15,4 euro l’ora (largamente superiore a quello degli altri paesi: in Francia è di 11,9 euro) risulta non superiore al 55 per cento. Che succederebbe se l’Italia si allineasse alla Germania, introducendo un salario minimo pari al 55 per cento del salario mediano. Dato che, in Italia, il salario mediano è di 11,9 euro l’ora (secondo Eurostat), il salario minimo obbligatorio sarebbe di 6,54 euro l’ora, più o meno a metà strada fra Francia e Spagna.
Maurizio Ricci