di Fernando Liuzzi
Roma, ore 15:53 di oggi, giovedì 15 maggio: un applauso suggella la firma dell’accordo Electrolux. Siamo a Palazzo Chigi e tra i presenti, oltre al padrone di casa, il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, e ai ministri dello Sviluppo economico, Guidi, e del Lavoro, Poletti, ci sono i Presidenti (o comunque i rappresentanti) delle Regioni interessate all’accordo (Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia-Romagna), nonché i rappresentanti dell’Azienda e dei tre maggiori sindacati dei metalmeccanici: Fiom-Cgil, Fim-Cisl e Uilm-Uil.
Ora strette di mano e sorrisi, alla firma di un accordo sindacale, sono gesti non inconsueti. Ma un applauso è qualcosa di inatteso, qualcosa che merita un minimo di riflessione. Stile Renzi, si potrebbe dire, veloce e televisivo. Ma anche la sincera soddisfazione, che ha accomunato le parti, per il fatto di essere riusciti a trovare un’intesa forse insperata, un’intesa in cui tutti hanno sacrificato qualcosa, ma tutti hanno avuto ciò cui veramente tenevano. Insomma, un accordo “win-win” (tutti vincono, ndr).
L’Azienda puntava, essenzialmente, a ottenere una riduzione del costo orario del lavoro, ma anche a ridimensionare la sua presenza in un paese “caro” come l’Italia I sindacati puntavano invece, in primo luogo, a evitare licenziamenti, e, in secondo luogo, a evitare riduzioni del salario. Le Regioni a evitare chiusure di stabilimenti nel proprio territorio. E il Governo? Quanto meno, a uscire a testa alta da una difficile vertenza industriale. Una vertenza che non può essere compresa senza inquadrarla in una duplice cornice. Da un lato, la grande crisi economica che dura ormai da più di 5 anni e ha compresso la domanda interna di beni di consumo durevole. Dall’altro, una tendenza, precedente alla crisi esplosa nel 2008, che già da tempo spingeva le multinazionali del bianco a delocalizzare la produzione di elettrodomestici a minor valore aggiunto dall’Europa Occidentale verso quella Orientale, alla contemporanea ricerca di costi del lavoro più contenuti e di nuovi mercati di sbocco più dinamici; ovvero di mercati in cui la domanda di frigoriferi e cucine, lavatrici e lavapiatti, non fosse animata solo dalla volontà di sostituire apparecchiature usate o obsolete, ma da quella di dotarsi di macchine non ancora entrate nell’uso quotidiano.
Ebbene, bisogna dire che l’inedita coppia Guidi-Poletti, coadiuvata certo anche da un vice-ministro esperto quale Claudio De Vincenti (Mise) e dai funzionari dei due Ministeri, se l’è cavata bene. Ma questo non solo per le competenze utilizzabili e utilizzate al tavolo delle trattative, ma anche per due fattori politici. Il primo – come ha notato il Presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia, Debora Serracchiani, che è anche vice-segretaria del Pd – è consistito nella “capacità che Istituzioni e lavoratori hanno avuto di restare uniti” di fronte all’Azienda. Il secondo, verosimilmente, in un quid di volontà politica che il governo Renzi ha avuto in misura percettivamente maggiore dell’Esecutivo che lo ha preceduto. Nessuno ha sbattuto i pugni su nessun tavolo. Nessuno, dai palazzi ministeriali, ha fatto la voce grossa contro la multinazionale svedese. Ma alla fine il risultato, anche se limitato, c’è stato. Da qui a tutto il 2017 la Electrolux resta in Italia. Nessuno dei suoi 4 stabilimenti (Solaro, Porcia, Susegana e Forlì) sarà chiuso. Nessun lavoratore sarà licenziato, anche se con varie incentivazioni all’uscita l’Azienda cercherà di diminuire il numero degli addetti oggi in organico.
Da un punto di vista teorico, fin qui il governo Renzi non ha chiarito quali obiettivi di politica industriale intenda perseguire, né con quali strumenti intenda, eventualmente, farlo. Da un punto di vista pratico, però, la sua azione, almeno in questo caso, è stata efficace.
L’Azienda ha rinunciato, almeno per tre anni, a delocalizzare le sue produzioni italiane e a ridurre in via diretta la paga oraria. Ha peraltro ottenuto una riduzione del costo del lavoro attraverso l’attivazione di diversi strumenti. I sindacati hanno ottenuto che non ci siano licenziamenti, e ciò, essenzialmente, ricorrendo all’attivazione dei contratti di solidarietà. In pratica, nessun lavoratore perde il suo posto, ma tutti avranno orario ridotto, con una conseguente riduzione del proprio reddito mensile. Contemporaneamente, la solidarietà – intesa quale strumento di coesione fra i lavoratori – vede confermata la propria validità. Il Governo, peraltro, grazie a una misura inserita nel decreto Poletti, approvato proprio oggi dalla Camera, effettuerà una decontribuzione delle ore lavorate in contratto di solidarietà, ovvero accetta una riduzione delle entrate. I poteri pubblici favoriranno inoltre le attività di ricerca e sviluppo promosse dalla Electrolux. La quale si impegna, per parte sua, a programmare investimenti per un ammontare di 150 milioni di euro. Ancora: i lavoratori di Porcia, lo stabilimento che godeva di pause giornaliere più lunghe, rinunciano a 5 minuti di pausa, mentre negli altri stabilimenti la cadenza delle linee sarà accelerata, anche se in misura relativamente contenuta. Quanto ai sindacati, rinunciano al 60% delle ore di permesso per i propri delegati, ma mantengono un monte-ore comunque superiore al minimo fissato nel Contratto nazionale. Da tutto ciò dovrebbe derivare una crescita della produttività aziendale, senza che siano intaccati diritti fondamentali dei lavoratori.
Insomma, i dirigenti della Electrolux, da oggi, hanno motivo di ritenere che l’Italia sia un paese più amichevole nei confronti dell’azienda svedese. Lavoratori e sindacati hanno mostrato in concreto quali e quanti obiettivi siano raggiungibili attraverso la contrattazione. Regioni interessate e Governo hanno mostrato che è possibile convincere una multinazionale a operare in Italia, un paese dotato di una manodopera tra le più qualificate del pianeta.
Infine, due osservazioni (relativamente) marginali. La prima si riferisce alla politica della comunicazione del nuovo Presidente del Consiglio. Il quale, e ciò è certo politicamente significativo, ha tenuto ad essere presente all’atto finale di una trattativa che è stata aspra e difficile, costellata di scioperi e di momenti anche drammatici. Ma, per quanto riguarda i rapporti con i mezzi di informazione, si è limitato a far salire – nella sala dove i rappresentanti delle parti erano riuniti – fotografi e cameramen, che hanno immortalato l’atto della firma dell’intesa. E ha poi scelto di non scendere in sala stampa, lasciando al suo vice Del Rio, e ai ministri Guidi e Poletti, il compito di tenere una breve conferenza stampa. Insomma, par di capire, meglio una sequenza nei telegiornali che una parola regalata agli operatori della carta stampata.
Seconda osservazione. Ai tavoli della trattativa col Governo, l’Esecutivo ha invitato i sindacati di categoria, in questo caso i metalmeccanici, e non le confederazioni sindacali di appartenenza. Laddove quando si tratta di una vertenza sovraregionale, che pone rilevanti problemi occupazionali e industriali, tutti i Governi hanno da sempre coinvolto le grandi Confederazioni. La Cgil ha peraltro commentato positivamente i contenuti dell’intesa, e lo ha fatto con un comunicato assai tempestivo, diffuso poco dopo la firma dell’accordo. Ma si rimane con l’impressione che il governo Renzi abbia voluto utilizzare anche questa occasione per far capire che non attribuisce alcuna particolare importanza al rapporto con Cgil, Cisl e Uil.
@Fernando_Liuzzi