Il mondo del lavoro in Italia sta per essere rivoluzionato. E in tempi anche piuttosto brevi, dato che sarebbe intenzione del Governo incassare il primo via libera dal Parlamento già entro l’8 ottobre, arrivando a tale data tramite emanazione di decreti attuativi o, laddove fosse necessario, di un decreto legge.
Per questo, benché forse sia ancora troppo presto per tirare le somme sull’impatto che la riforma potrebbe avere sul mercato del lavoro, vale la pena approfondire i dati finora a disposizione, come ha fatto Enrico Marro in un articolo pubblicato oggi sul Corriere della Sera.
Al fine di fare chiarezza sulle principali novità dell’emendamento del Governo al Jobs act, depositato lo scorso 17 settembre, l’analisi di Marro prende il via dalle tipologie contrattuali del lavoro dipendente, che, spiega, potranno essere soltanto due: a tempo determinato o indeterminato a tutele crescenti. Quest’ultima tipologia prevede la scomparsa del diritto al reintegro, ad oggi tutelato dall’articolo 18, fuorché nel caso di licenziamento discriminatorio, ma verrebbe applicata solo alle nuove assunzioni successive all’entrata in vigore della legge; il che suddividerebbe i lavoratori fra quelli ancora tutelati dall’articolo18, invirtù del vecchio tipo di contratto, e i nuovi assunti, il cui bacino tenderà, ovviamente, ad aumentare nel corso degli anni.
La prima novità è che le imprese saranno incentivate ad assumere con contratto a tutele crescenti ricevendo uno sconto sul lavoro, che, però, perderebbero qualora nei primi tre anni di rapporto lavorativo (cioè la durata che probabilmente avrà la prima fase di questo tipo di contratto), recedessero il contratto. In questo caso l’azienda, infatti, dovrebbe restituire lo sconto ricevuto allo Stato.
La seconda riguarda invece le nuove tipologie di ammortizzatori sociali. Scomparirebbero, spiega Marro, la cassa integrazione per chiusura di aziende, quella in deroga e quella per indennità di mobilità, mentre resterebbe la cassa integrazione ordinaria, solo in caso di cali momentanei di produzione, e quella straordinaria, in caso di ristrutturazioni aziendali.
Ma nel caso di licenziamento di dipendenti assunti con contratto a tutele crescenti, cosa accadrebbe?
Oltre all’indennizzo ricevuto dall’azienda in base alla durata del rapporto di lavoro, il lavoratore riceverebbe un’indennità di disoccupazione già prevista nella riforma Fornero, ovvero l’Aspi (assicurazione sociale per l’impiego), la cui entrata in vigore, prevista per il 2017, verrebbe anticipata. Tale indennizzo, inoltre, verrebbe esteso a tutti i lavoratori, compreso quel milione e mezzo attualmente impiegato in “contratti a progetto, collaborazioni varie o altre forme di precariato”. Il tetto massimo di questo secondo indennizzo, ad oggi previsto dall’Aspi, sarebbe di 1.165 euro per il 2014, mentre la sua durata potrebbe essere allungata da18 a24 mesi. Unico obbligo per il lavoratore, accettare le offerte di formazione e di lavoro congrue, pena la perdita dell’assegno.
La possibilità di attuare questi tipo di riforma, fa notare Marro, dipenderà però dalla capacità del Governo di reperire 1,5 miliardi di euro da introdurre nella legge di Stabilità per il 2015.
La partita ancora tutta da giocare, spiega infine il giornalista, si concentrerà su ciò che dovrebbe avvenire a seguito dei famosi 3 anni indicati come prima fase del contratto a tutele crescenti. E le possibilità in campo non sono poche, fra la sinistra Pd e sindacale che vorrebbe il reintegro dell’articolo 18, il Ncd che vorrebbe proseguire con l’indennizzo a tutele crescenti in rapporto agli anni di servizio prestati (le proposte sarebbero da1 a3 mesi di stipendio per anno), e il resto del Pd che si divide tra la seconda ipotesi e il reintegro dell’articolo 18 ma solo dopo un certo numero di anni di servizio (6, 12 o 15).
Fabiana Palombo