Si discute di articolo 18, la maggioranza di governo vacilla, si prefigura perfino l’ipotesi di elezioni anticipate. Ma il dibattito non coglie ancora la verità del problema che si è aperto nel paese. Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia nei governi Letta e Renzi, una vita nel sindacato, spiega la natura del dilemma che attanaglia il paese e il pericolo che con la crisi del sindacato stiamo correndo.
Baretta, che sta succedendo attorno all’articolo 18?
Si sta svolgendo una discussione surreale, questo problema non è centrale. Penso che accanirsi a difendere l’articolo 18 non faccia cogliere la natura della nuova stagione dei diritti, per avere una nuova parità.
Ma dove si sta sbagliando?
Uno degli errori, di una parte del sindacato e della sinistra, ma anche del centro destra che sfrutta questo errore, consiste nel pensare che sia in atto uno scontro di classe, tra destra e sinistra.
E non è così?
Proprio no. La provocazione di Renzi è tra modernizzazione e conservazione. Si può discutere di cosa sia modernizzazione e cosa conservazione, ma quello in atto non è un conflitto di tipo tradizionale, tra un imprenditore liberista e la tutela dei diritti dei più deboli. E’ qualcosa di molto diverso, legato al cambiamento che è avvenuto nella società.
In cosa è cambiata la nostra società?
Il ciclo produttivo si è scomposto, sono nate nuove tipologie di lavoro, tutto si è modificato nel campo del lavoro e per questo serve una rilettura, della società, del lavoro e anche del concetto stesso di industria. Renzi questo ha detto, che è necessario un ripensamento di questi parametri e che questa discussione dovrebbe essere accelerata al massimo.
E’ molto difficile portarla avanti.
Sì, ma il sindacato in altri tempi lo fece. Alla fine degli anni 60 l’industrializzazione spinta, con l’operaio massa, con le catene di montaggio, cambiò l’organizzazione del lavoro e le figure professionali. Un terremoto, ma il sindacato sia pure fatica, con una grande impennata, riuscì a ripensare se stesso, e soprattutto la sua rappresentanza.
Oggi siamo in una situazione analoga?
La differenza è che allora i cambiamenti erano tutti all’interno del perimetro aziendale, nella fabbrica. Adesso quel perimetro è saltato, si dovrebbe cercare nel territorio una rappresentanza più diffusa. E anche all’interno della fabbrica è cambiato tutto, una volta erano tutti dipendenti dell’impresa, adesso lo sono solo una parte dei lavoratori, gli altri entrano nel gioco degli appalti e dei subappalti che gestiscono parti del processo produttivo.
Il sindacato si è perso in questa situazione?
Si è concentrato sul nucleo forte dei lavoratori, e questo ha causato una diminuzione della rappresentanza. Per ragioni obiettive, non per cattiva volontà, ma la realtà è che il sindacato si è chiuso in un fortino.
Di qui i suoi problemi.
Sì, perché il mondo è scoppiato e la stessa concezione dei diritti va vista in maniera diversa. Prenda i problemi legati alla maternità. Tutte le lavoratrici a tempo indeterminato hanno tutele di legge e da contratto. Ma se sei una precaria, se hai un contratto a progetto, spesso ti trovi a dover scegliere tra la maternità e il tuo lavoro. Lo stesso per la malattia, se sei precario quando ti ammali rischi il posto di lavoro.
Il sindacato che può fare?
Deve fare uno sforzo notevole di riflessione. C’è lo spazio per riuscirvi, ma deve essere capace di entrare in questa ottica.
Sarà in grado di farlo?
Sì, ma deve spostare l’attenzione, allargarla. I numeri, le forze, le condizioni ci sono. E’ un problema culturale e politico.
Se non ci riesce?
Il rischio di implosione c’è tutto, e sarebbe la prima volta dopo 150 anni.
E’ un rischio reale, anche perché sta crescendo l’idea che il sindacato sia il nemico, che deve essere in quanto tale abbattuto. Ma se il sindacato scompare, che accade?
In questa eventualità, possono accadere due cose. La prima è che la rappresentanza venga assorbita in un’ottica solo corporativa. Si accusa tanto il sindacato di essere corporativo, ma i forconi o i No Tav lo sono molto di più. Questo è il rischio, che prevalga una rappresentanza settoriale e corporativa, che cozzerebbe con la visione generale che il sindacato ha sempre avuto, anche quando si è diviso al proprio interno.
La seconda possibilità?
Che venga meno la visione collettiva della rappresentanza, che tutto si giochi su individualismi spinti. E’ una colpa del sindacato non aver capito che nel nuovo mercato il ruolo del singolo è importante, ma la dimensione collettiva garantisce l’attenzione al generale.
Si sta rafforzando la tendenza a rapporti sempre più stretti e diretti tra impresa e lavoratori. Può essere un problema?
Assolutamente no, non esistono esclusività nel rapporto con i lavoratori. E’ normale che un’impresa abbia rapporti diretti con i propri dipendenti. Ma non deve prevalere l’idea che il mediatore collettivo non serve, perché invece è sempre stato uno stimolo alla crescita. Non credere nell’utilità del mediatore collettivo sarebbe un abbaglio madornale. Del resto non a caso si sta depauperando anche la figura del capo del personale. La tendenza è quella di dare alle relazioni industriali un ruolo sempre meno importante nell’azienda.
Si indebolisce il sindacato, ma anche le organizzazioni degli imprenditori?
La crisi non è solo del sindacato, anche le associazioni imprenditoriali sono in una crisi notevole. Non è un caso se la Fiat è uscita da Confindustria.
Massimo Mascini