1. L’anomalia italiana delle relazioni industriali
Anche i risultati delle rilevazioni Ocse dimostrano che l’Italia non è un paese con un ordinamento giuridico del lavoro “anomalo” rispetto alla media (Oecd Employment Outlook 2013. Protecting job, enhancing flexibility: a new look an employmentprotection legislation). A essere più precisi, l’Italia ha un grado di rigidità del mercato del lavoro forse anche inferiore alla media dei paesi Ocse. Peraltro, se prendiamo in considerazione gli ultimi 3-4 anni, l’Italia ha mostrato una straordinaria perizia nell’attuare provvedimenti legislativi che incidono sull’ordine giuridico del mercato del lavoro e della protezione sociale, in diligente osservanza delle indicazioni provenienti dalle principali istituzioni sovranazionali (prime fra tutte Commissione Europea, Bce, Fmi) (A. Lo Faro, Foundamental Rights Challenges to Italian Labour LawDevelopments in the Time of Economic crisis: an Overview, in Kilpatrick – De Witte (ed.)Social Rigths in Time of Crisis in Eurozone: The Role of Foundamental Rigths Challenges, EUI Workin Paper Department of Law 2014/05, p. 60 ss.).
A cominciare dalla nota lettera della Bce al governo italiano dell’estate 2011, l’Italia è stata solerte nel dare attuazione ai “suggerimenti” elencati in quella missiva tanto da poter dire che, a oggi, si è data soddisfazione a due delle tre principali richieste. Si rammenti che nel primo punto di quella lettera, la Bce elencavano tre azioni ritenute necessarie: a) privatizzazione dei servizi pubblici locali; b) decentramento aziendale della contrattazione collettiva per le condizioni normative e salariali; c) «approfondita riforma» delle regole in materia di assunzioni e licenziamenti. L’art. 8, legge n. 148/2011sui contratti di prossimità in deroga, per un verso, la riforma dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori e dei contratti a termine (operata a cominciare dalla Legge n. 92/2012 fino all’attuale disegno di legge delega), per l’altro, sono il risultato dell’azione dei governi (più che del Parlamento) dell’Italia (E. Olivita, Crisi economico-finanziaria e equilibri costituzionali. Qualche spunto a partire dalla lettera della Bce al governo italiano, in Rivista AIC, n. 1/2014).
A ciò si aggiunga, invero, che la presenza nel nostro ordinamento giuridico di una norma come l’art. 18 St. Lav. non è un’anomalia atteso che il principio di conservazione del posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo è previsto anche dal Kundigungsschutzgesetz, cioè la Legge tedesca sul licenziamento. Ciò che questa legge consente all’imprenditore è di chiedere al giudice di valutare la possibilità di trasformare la reintegrazione in un’indennità, dimostrando che la reintegrazione sarebbe dannosa per l’impresa (M. Pedrazzoli, Regole e modelli del licenziamento in Italia e in Europa. Studio comparato, in Giornale Dir. Lav. Rel. Ind., 2014, p. 36-37).Tornando all’Italia, se a ciò aggiungiamo tutta la legislazione del lavoro che risale – a ben vedere – alla legislazione dell’emergenza della fine degli anni ’70, possiamo affermare senza timore di smentita che il diritto del lavoro italiano risultante dagli ultimi 30 anni è ben altra cosa rispetto a quello prodottosi nei 30 anni post-costituzionali. Insomma, possiamo riconoscere che l’ordinamento giuridico del lavoro italiano è allineato agli standard attuali europei.
L’anomalia che persiste, invece, riguarda il sistema delle relazioni industriali.
Certo, non si può trascurare che il sistema si è indebolito per varie ragioni (de-industrializzazione e delocalizzazione produttiva che riducono la base rappresentativa dei sindacati e delle associazioni di rappresentanza delle imprese, frammentazione e nanismo imprenditoriale, ecc.). A ciò si aggiunga che il superamento della concertazione è un fatto ormai consolidato. Già dai primi anni 2000 la pratica della concertazione, essenziale per la politica dei redditi, era stata abbandonata dal II governo Berlusconi; oggi, poi, visto che la politica del lavoro sembra dipendere dai “suggerimenti” sovranazionali – come si è appena visto – un modello di relazioni industriali concertativo non sembra essere contemplato nell’orizzonte.
Nondimeno, l’Italia resta un’anomalia nel panorama europeo in ragione della strutturale interrelazione fra ordinamento giuridico del mercato del lavoro e ordinamento intersindacale. La storia post-costituzionale del diritto del lavoro italiano si è caratterizzata per una straordinaria interrelazione fra sistema giuridico e sistema delle relazioni industriali che non ha mai fatto avanzare il primo fino al punto di subordinare il secondo. In fin dei conti, il fatto stesso che la disciplina legislativa in materia di sindacato e contrattazione collettiva sia scarna (o inesistente) dimostra che l’ordinamento intersindacale è stata – contemporaneamente – causa ed effetto di una solidità politico-sociale del movimento sindacale italiano. Insomma, nonostante i fattori di crisi, le istituzioni basilari del sistema di relazioni industriali italiano restano un’anomalia rispetto agli altri paesi europei e – al contempo – costituiscono una (almeno potenziale) resistenza alle politica delle istituzioni sovranazionali.
Politica finalizzata a modificare l’assetto delle relazioni industriali italiane, superando la prospettiva macroeconomica dell’azione sindacale (tipica della politica dei redditi, per esempio), relegandola nel – pur importante – ambito della dimensione microeconomica aziendale o territoriale. In questa prospettiva, per esempio, dobbiamo rileggere la lettera della Bce nel punto in cui richiedeva la riforma della struttura della contrattazione collettiva, con particolare riferimento al salario: il salario minimo nazionale, stabilito dai contratti collettivi, un totem (sic) del sistema contrattuale italiano, è incompatibile con la prospettiva macroeconomica che non contempla l’azione sindacale; piuttosto, se questa è da collocare nella prospettiva microeconomica aziendale, la contrattazione salariale deve essere spostata a questo livello. L’aziendalizzazione del sistema di relazioni industriali è il prodotto dall’approccio microeconomico alla regolazione giuridica del mercato del lavoro.
2. La delega sul «compenso minimo orario»
Data questa base d’analisi, la norma del Jobs Act sul “salario minimo legale” deve essere valutata in termini più articolati rispetto a quanto finora emerso nel dibattito pubblico. Anzi, a ben vedere, si tratta di una misura alla quale il dibattito non ha prestato la dovuta attenzione. L’art. 1, comma 7, lettera f) del c.d. maxiemendamento, delega al governo l’«introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale».
La delega pone diverse questioni che non posso qui analizzare ma sulle quali soffermerò l’attenzione in uno scritto di prossima pubblicazione (in Quaderni di Rassegna Sindacale, 2014, n. 4). In questa occasione, però, posso mettere in evidenza alcuni effetti che si producono sulla nozione costituzionale di retribuzione (par. 3), sulle politiche macroeconomiche salariali (par. 4) e quindi sull’intero sistema contrattuale (par. 5).
3. La de-costituzionalizzazione del salario minimo contrattuale
Il primo effetto di questo provvedimento,se e quando diverrà vigente, sarà superare definitivamente il principio che innesta il salario stabilito da un contratto nazionale nell’art. 36 Cost. Questa norma sancisce che la retribuzione deve essere proporzionata alla natura del lavoro svolto e comunque sufficiente a garantire un’esistenza libera e dignitosa. Data la mancanza di una legge che stabilisse tale soglia minima di retribuzione, la giurisprudenza ha dato sostanza a quel principio rimandando ai minimi salariali previsti dai contratti collettivi nazionali di categoria. Si tratta di una giurisprudenza che ha consentito ai contratti collettivi nazionali italiani, seppur privi di efficacia generale, di essere applicati con efficacia generalizzata almeno nella parte dei minimi retributivi. Inoltre, sempre la giurisprudenza ha “quantificato” la retribuzione non in base a un qualsiasi contratto collettivo ma solo a quelli sottoscritti dalle parti sociali più rappresentative. Si può facilmente comprendere lo straordinario intreccio fra sistema di relazioni industriali e ordinamento costituzionale sotto il profilo salariale.
Orbene, una volta però che il salario minimo orario venga determinato legalmente, è evidente che il riferimento “quantitativo” del principio previsto dall’art. 36 Cost. non sarà più il contratto nazionale ma, appunto, il salario legale. D’altronde, sebbene il salario legale varrà solo per chi non è coperto da contratto nazionale,ciò non toglie che esso sarà comunque il riferimento costituzionale in quanto non si può pensare di avere ben due diverse soglie di limite minimo di sufficienza retributiva di rango costituzionale.
L’effetto sul contratto nazionale è dunque facilmente intuibile. Il salario del contratto nazionale, da riferimento imprescindibile di rango costituzionale diverrà mera determinazione convenzionale. Due le possibili conseguenze: da una parte, un altro vincolo in meno all’applicazione del contratto nazionale accentuando la tendenza a non applicare quel contratto nazionale; dall’altra, la possibile sostituzione di contratti nazionali con retribuzioni più alte con contratti nazionali “pirata” la cui legittimità salariale verrebbe garantita dal fatto di essere comunque prossimi al salario legale, ma certamente inferiore rispetto al salario previsto dai contratti nazionali maggiormente rappresentativi. Naturalmente, questa ipotesi si basa sulla previsione implicita al discorso: cioè che il salario minimo legale sarà inferiore al salario previsto dai contratti nazionali. Una previsione ragionevole perché, altrimenti, se la soglia legale dovesse coincidere con quella prevista dai contratti nazionali, allora basterebbe attribuire efficacia generale a questi contratti collettivi, pur col solo riferimento alla retribuzione.
In questo senso, è poco più che una clausola di stile prevedere che il salario legale varrà per i contratti di lavoro non coperti da contrattazione collettiva nazionale. Infatti, dato il nostro sistema giuridico nel quale si può liberamente applicare o non applicare un contratto collettivo (appunto perché privo di efficacia giuridica vincolante per tutti), è facile prevedere che un numero sempre maggiore di imprese potrebbe trovare più conveniente non applicare il salario previsto dal contratto nazionale più rappresentativo e limitarsi ad applicare il salario minimo legale. Di fronte a questa situazione, le parti sociali (o meglio i sindacati) per contrastare la fuoriuscita dal contratto nazionale dovranno accettare di abbassare il salario minimo contrattuale nazionale, avvicinandolo sempre più al salario minimo legale.
Insomma, de-costituzionalizzare il salario contrattuale significa sterilizzare il più efficace mezzo per garantire effettiva e generalizzata capacità regolativa al contratto nazionale.
4. La politica salariale “amministrata”
Secondo la formulazione letterale contenuta nel disegno di legge, il salario minimo legale sarà determinato «previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative». È di tutta evidenza che il salario minimo legale non costituirà il risultato di una negoziazione in senso tecnico fra chi acquisisce e chi presta forza lavoro, ma sarà determinato unilateralmente da una pubblica autorità (presumibilmente un’autorità amministrativa).
Non c’è dubbio che, formalmente e tecnicamente, il salario minimo legale è il “prezzo” del lavoro “imposto per legge”, e perciò può apparire come una misura limitativa del mercato; precisamente, limitativa secondo la più classica tradizione della norma minima inderogabile. In effetti, un salario minimo legale rappresenterebbe uno strumento di tutela del lavoro quando il salario sia significativamente inferiore a quello stabilito dal contratto nazionale più rappresentativo, fosse anche previsto da un altro contratto collettivo (i c.d. contratti “pirata”). Però, ciò dipenderà dalla soglia concretamente prevista per il salario minimo legale.
Quel che è certo è che la determinazione del “prezzo minimo” del lavoro sarà un atto di amministrazione dell’economia e non di contrattazione. Il salario minimo legale diventa così a tutti gli effetti un fattore di rilevanza pubblica, nel senso di essere espressione dell’interesse pubblico-generale e non privato-collettivo. Beninteso: non si tratta di una assoluta novità. Che il salario sia un fattore di rilievo pubblico è istituzionalmente vero da almeno un trentennio (almeno per l’Italia), cioè da quando la dottrina monetarista ha dogmatizzato la relazione fra salari e inflazione. Le politiche salariali di indicizzazione della dinamica retributiva in funzione antinflattiva risalgono alla fine degli anni ’70 e – per l’Italia – almeno al Protocollo Scotti del 1983. Da allora in poi il salario è stato funzionalizzato alle politiche antinflazionistiche incidendo sull’istituzione della contrattazione collettiva. In fin dei conti, la politica dei redditi sancita col protocollo del 1993 non ha fatto altro che irreggimentare la dinamica retributiva al contenimento dell’inflazione.
Oggi, certamente non è il contenimento dell’inflazione l’interesse pubblico, bensì la c.d. competitività (o produttività che dir si voglia). Oggi si continua a ritenere necessario contenere la dinamica salariale ma ai fini della crescita della competitività. Questo era scritto nella succitata lettera della Bce al governo italiano, questo è quanto viene richiesto dai vincoli europei. Si prenda in considerazione, per esempio, l’Euro Plus Pact del 2011. Nel capitolo dedicato alla competitività – uno dei cardini delle politiche dell’Unione – pur «rispettando le tradizioni nazionali di dialogo sociale e relazioni industriali» si richiedono «misure per ottenere costi di sviluppo in linea con la produttività, quali: riforma della struttura del salario e, dove necessario, del grado di centralizzazione del processo contrattuale e dei meccanismi di indicizzazione, pur mantenendo l’autonomia delle parti sociali nel processo di contrattazione collettiva» (corsivo mio).
Su questa base, una riforma della struttura del salario si avrebbe proprio con l’introduzione del salario minimo legale allor che si producessero le conseguenze indicate in precedenza sul salario contrattuale nazionale e, correlativamente, il salario amministrativo-legale determinerebbe di per sé un nuovo meccanismo di indicizzazione, del tutto separato dalla dinamica conflittuale-negoziale. Niente di più di quanto già sperimentato in Germania dove «la politica di contenimento salariale è stata impostata con l’obiettivo di garantire che gli incrementi salariali crescessero più lentamente della produttività… La stabilità salariale è stata raggiunta attraverso la programmazione salariale centralizzata, basata su un supporto legale alla contrattazione collettiva settoriale, agganciata a un obiettivo salariale formale al quale in alcuni paesi è stata data forza di legge» (S. Deakin, Labour Standard, Social Rights and the Market: “Inderogability” Reconsidered, in Giornale Dir. Lav. Rel. Ind., 2013, p. 559).
Il segnale di questa svolta nella politica salariale è rinvenibile proprio nei conseguenti atti legislativi che la Troika ha richiesto ad alcuni paesi dell’Unione – quelli più colpiti dalla crisi finanziaria – attraverso i Memorandum coi quali in diversi paesi si è messa in opera una robusta riduzione della massa salariale nazionale anche attraverso la riduzione o il congelamento del salario minimo legale nazionale (G. Ricci,La retribuzione in tempi di crisi: diritto sociale fondamentale o variabile dipendente?, Working Paper Massimo D’Antona.INT, n.113/2014, in http://csdle.lex.unict.it). Si comprende facilmente il mutamento della tecnologia sociale di riduzione della dinamica salariale fra la vecchia esperienza e la nuova: mentre nella stagione della politica antinflazionistica occorreva comunque il consenso del sindacato a una politica di moderazione salariale (con le necessarie conseguenze sul piano delle misure sociali da adottare per il consenso), nella stagione del salario di produttività, il contenimento del salario minimo nazionale deriva da un’azione governativa, sostanzialmente unilaterale in osservanza delle pressioni politico-istituzionali di rango sovranazionale.
5. La centralità del contratto aziendale
Tali pressioni si traducono poi in modifiche degli assetti istituzionali del mercato del lavoro e delle relazioni industriali che sono già largamente riscontrabili nella evoluzione dei rispettivi sistemi ordinamentali e che, perciò, danno solidità alle ipotesi che descrivono la tendenza di questi sistemi. Orbene, che i sistemi di relazioni industriali europei (incluso quello italiano) siano avviati verso l’aziendalizzazione è ormai un dato acquisito; quello che si può aggiungere è che la tendenza non è ancora giunta alla sua massima espressione e che per l’Italia la questione del salario minimo legale – per come l’abbiamo presentata – è strettamente legata all’accentuazione del processo di aziendalizzazione del sistema contrattuale.
Tale considerazione si basa prima di tutto sull’autorità dei patti vincolanti europei, come abbiano visto, ma anche su spinte e sollecitazioni che cominciano a farsi avanti in alcuni attori del sistema. Mi riferisco alle Proposte per il mercato del lavoro e per la contrattazione,pubblicate da Confindustria nel maggio 2014, all’indomani della presentazione del Jobs Act al Senato. Ebbene, c’è un intero paragrafo dedicato alla «riforma della contrattazione collettiva» (2.5) nel quale si avanza la necessità di completare la riforma della contrattazione collettiva col potenziamento della derogabilità; in breve, si legge che «dopo la derogabilità normativa… occorre disciplinare la derogabilità economica». Tale obiettivo dovrebbe tradursi – sempre nella proposta Confindustria – nel consentire alle imprese che hanno contrattazione aziendale di sterilizzare gli incrementi stabiliti dal contratto nazionale e consentire invece solo gli incrementi di produttività aziendali; in alternativa, per le imprese che non hanno una contrattazione aziendale, adottare schemi predisposti dai contratti nazionali – sulla falsa riga di quello sulla detassazione dei premi produttivi – ma che comunque portino al medesimo risultato. Fin qua la derogabilità.
Ma l’elemento che per Confindustria fa da sfondo a questa sterilizzazione del salario contrattuale nazionale è proprio il salario minimo legale, posto che vi si legge che «una diversa configurazione degli assetti contrattuali è in qualche modo imposta dalla introduzione, anche in Italia, di un salario minimo legale… [che] potrebbe quindi contribuire ad accelerare quel processo di modernizzazione che consideriamo una opportunità…».
In conclusione, appare evidente, dunque, che gli effetti del salario minimo legale dovrebbero indurre a valutare il Jobs Act in termini differenti da come sembra presentarlo il dibattito pubblico. Più che sull’amplissima varietà di misure ipotizzate che, in gran parte, ripropongono interventi già annunciati (e alcuni già praticati) nell’ultimo ventennio (ammortizzatori sociali, politiche attive del lavoro, conciliazione), gli assi portanti del Jobs Act che ne tratteggiano il carattere politico sono due: il contratto a tutele crescenti senza art. 18 st. lav. e – per quanto detto – il salario minimo legale. Due misure coordinate che marciano nella stessa direzione e che danno un nuovo equilibrio al sistema giuridico del lavoro. Un nuovo equilibrio la cui descrizione merita in apposito approfondimento.
Vincenzo Bavaro