di Massimo Mascini
Paolo Capone è il nuovo segretario generale dell’Ugl. E’ stato eletto il 25 ottobre dal consiglio nazionale della confederazione. Non è stata un’operazione facile ne indolore, perché l’organizzazione era spaccata in due ed e’ stato necessario trovare una sintesi per governare la confederazione. Il prossimo appuntamento ufficiale è per la primavera, quando si celebrerà il congresso della confederazione, che provvederà alla conferma del segretario. Il congresso era stato indetto per il 25 gennaio, ma proprio il cambiamento radicale che è avvenuto ha reso necessario uno spostamento per trovare i nuovi equilibri, indispensabili in una grande organizzazione. Il diario del Lavoro ha voluto conoscere gli obiettivi che Capone si pone di raggiungere, gli strumenti cui pensa di ricorrere, i problemi che pensa di dover superare.
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Capone, quali saranno i suoi obiettivi prioritari?
Il primo sarà il rilancio dell’immagine della confederazione, uscita un po’ ammaccata da queste ultime vicende. E poi voglio costruire un sindacato nuovo, che per questo chiamo Ugl 2.0. Un’organizzazione più rispondente alle esigenze del mondo del lavoro, con elasticità di gestione e rapidità di intervento. Dobbiamo rivedere la macchina organizzativa. Ma soprattutto dobbiamo dare una chiara caratterizzazione alla politica sindacale dell’Ugl.
E’ la politica sindacale il problema più importante?
Non può essere altrimenti. Il sindacato, tutto il sindacato è sotto attacco. C’è un’architettura nel tentativo di annullare ogni fase di aggregazione del consenso e di formazione delle idee per tutti i corpi intermedi. Renzi ne è la quotidiana dimostrazione.
Perché questo attacco?
Si stanno cancellando un po’ tutti i luoghi di elaborazione culturale. Scompare il Senato, si cancellano le province, cresce la voglia di depotenziare le regioni, i comuni con la legge di stabilità non sono più in grado di svolgere la loro funzione verso i cittadini, i partiti sono in evidenti difficoltà, tutti. Mancava il sindacato.
Chi muove questa architettura?
Esistono interessi diffusi, sicuramente internazionali, che tendono a uniformare il pensiero.
Come è possibile reagire?
Solo rilanciando un’iniziativa forte in termini culturali e politici e riappropriandoci del ruolo specifico del sindacato nei confronti dei lavoratori. Dobbiamo difendere i diritti e il lavoro. Non dimenticando, come si è fatto in questi anni, che prima si deve difendere il lavoro, poi i diritti.
Quali diritti?
Su questo termine si è fatta un po’ di confusione. Alcuni sono inalienabili, quelli che attengono alla dignità del lavoratore. Su questi non si può transigere: dall’articolo 18, al salario, alla sicurezza. Tuttavia, si deve recuperare anche la coscienza che il lavoro è un diritto, ma anche un dovere. Dobbiamo superare la fase in cui sono stati scambiati per diritti quelli che erano solo privilegi.
Con Renzi è possibile un confronto?
I segnali che avvertiamo preoccupano. Spero che il buon senso, non le ideologie, prenda il sopravvento e riporti la politica a fare il suo mestiere, il sindacato il proprio, in un confronto che credo sia irrinunciabile.
Pero’ la concertazione, dice il governo, e’ finita.
Probabilmente sì, ma non è possibile rinunciare a un confronto serrato tra chi ha la responsabilità delle scelte politiche e chi ha la rappresentanza degli interessi dei lavoratori.
Nella vostra strumentazione c’è anche lo scontro?
Certo, lo scontro è uno degli strumenti a disposizione delle organizzazioni sindacali, e vi si ricorre tanto più se manca il confronto.
Anche lo sciopero generale?
Sì. Il problema è che non vedo dopo lo sciopero generale altre forme di protesta efficaci. Quindi va sempre usato con estrema responsabilità. Anche perché, lo abbiamo visto in questi anni, il rischio che i disagi sociali si manifestino in forme violente è altissimo.
C’è il pericolo che qualcosa scappi di mano?
E’ il maggior timore che nutro in questo contesto di grave crisi. Il pericolo è che non ci siano più le risorse per garantire chi si trova nel disagio. Disoccupati, esodati, aziende in crisi.
Manca anche una politica industriale.
E ne sentiamo la mancanza. Al ministero dello Sviluppo ci sono più di 400 casi di aziende in difficoltà e il governo, al di là della capacità di annunciare eventi, non è stato in grado di individuare una vera politica industriale. Quanto accade nel settore dell’acciaio ne è la dimostrazione plateale.
Come pensa di risolvere il problema del difficile rapporto tra giovani e sindacati?
L’Italia ha un tasso di sindacalizzazione molto alto, frutto di un secolo di lotte sindacali molto avanzate, portate avanti dagli Anni Venti. Ma il numero dei giovani che si rivolge ai sindacati è basso, le confederazioni non hanno capacità attrattiva, non riescono a dare risposte efficaci alle loro esigenze. Credo che dovremo riflettere tutti su cosa fare, perché siamo rimasti ancorati a vecchi schemi, a modelli datati che non rispondono più alle esigenze dei giovani. Basta a pensare a come sono cresciuti i modelli contrattuali flessibili che hanno spinto i giovani a rinunciare al loro sacrosanti diritto di essere rappresentati.
Cosa fare, nel concreto?
Dobbiamo inventarci forme di comunicazione diverse e proporci interventi specifici per i giovani. Questo sarà uno dei compiti dell’Ugl 2.0, creare una vera interlocuzione con i giovani. Credo che forse potremmo tentare di realizzare forme di aggregazione attorno a specifiche battaglie che siano sentite dai lavoratori come proprie e allarghino così il bacino di interesse e rappresentanza del sindacato.
Che rapporti intendete avere con Cgil, Cisl e Uil?
Noi riconosciamo nel sindacato confederale, in tutte e quattro le centrali, un valore per la capacità che hanno di trattare i problemi sempre in un quadro più ampio. L’unità deve essere però un mezzo per raggiungere l’obiettivo della difesa degli interessi dei lavoratori, mai un fine. Per questo cercheremo, naturalmente nella reciprocità, di mantenere rapporti che consentano di percorrere strade comuni, senza pregiudizi o preclusioni.
Capone, lei crede nella partecipazione?
La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese deve essere un nostro obiettivo primario. Anche perché è emerso chiaramente che attraverso la partecipazione è possibile superare efficacemente momenti acuti di crisi.