Non c’è retorica che tenga. Il contratto a termine acausale di 36 mesi introdotto dal Jobs Act, parte I (d.l. 34 del 2014) avrà più appeal del contratto a tutele crescenti, che ha trovato posto nel primo decreto attuativo del Jobs Act, parte II ( legge delega n. 183 del 2014) alla vigilia dello scorso Natale. Bastano tre passaggi per capirlo.
Primo. L’ elemento che rende più o meno conveniente un contratto di lavoro per le imprese, in un mercato senza commesse, è la sua attitudine a vivere per un tempo breve e a morire senza ricadute economiche per l’impresa; in un mercato con commesse, viceversa, la sua attitudine a vivere per tutta la vita lavorativa del lavoratore, che però deve restare produttivo, con minor costi possibili per l’impresa.
Secondo. Il nostro è drammaticamente un mercato senza commesse.
Terzo. Il contratto a tutele crescenti è fatto per costare poco ma solamente per i suoi primi tre anni di vita, grazie alla decontribuzione della recente legge di stabilità (l. n. 190 del 2014), per morire quindi al loro scadere e, per di più, con ricadute economiche per l’impresa se alla sua morte non c’è valida spiegazione; il contratto a termine, viceversa, è fatto per vivere tre anni e per morire al loro scadere senza alcuna giustificazione e senza alcun costo per l’impresa.
Detto questo, sorge allora una domanda: quale necessità aveva il Governo di introdurre il contratto a tutele crescenti, soprattutto dopo aver semplificato il contratto a termine? Perché le accuse di semplicismo legislativo non reggono.
Proviamo a fornire una risposta in cinque brevi punti.
Primo. Nel nostro Paese, alcune delle aziende attualmente partecipate dallo Stato stanno per cambiare pelle, chi per essere privatizzata, chi per essere venduta, anche a causa delle passività registrate.
Secondo. Queste grosse aziende, insieme ad altre poche realtà industriali del Paese, che è fatto per il 94% di pmi, sono quelle che possono assumere più facilmente per mezzo di contratti a tempo indeterminato perché hanno commesse.
Terzo. Le grosse aziende vivono strette nella paura di imbrigliarsi nelle tutele dell'(attuale) articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori quando estromettono il lavoratore a tempo indeterminato che è diventato improduttivo.
Quarto. Privatizzare una partecipata statale o cederla, e quindi lanciarla sul mercato con le spalle meno o per nulla coperte dallo Stato, richiede di gettare le basi per una gestione dei rapporti di lavoro semplice, tutta basata sulla misurazione di produttività dei lavoratori. E quindi: dentro i buoni, fuori, senza il rischio di reintegra e con ricadute economiche tollerabili, i cattivi.
Quinto. Il contratto a tutele crescenti è perfettamente in grado di realizzare questa finalità.
Resta perciò da chiedersi: è una soluzione giusta?
Certamente si se, da qui a qualche anno, avremo notizia tanto di privatizzazioni e vendite delle aziende statali, quanto di incoraggianti aumenti dell’occupazione.
A quel punto, al Governo, bon gré o mal gré, dovrà riconoscersi di aver preso due piccioni con una fava.
Ciro Cafiero