Dal 10 marzo Luca Visentini è il designato segretario generale della Confederazione dei sindacati europei (Ces). In questa intervista al Diario del Lavoro, spiega le politiche che intende mettere in campo per il rinnovamento del dialogo sociale e della contrattazione.
Con la sua designazione a segretario generale, ora sono due gli italiani alla guida delle principali confederazioni europee, la Ces per i sindacati, e Business Europe per le imprese. Questo potrà influire sul dialogo sociale, in Europa così come in Italia?
Rivitalizzare il dialogo sociale a livello europeo è una sfida per noi prioritaria e auspico che il confronto con Business Europe sia positivo. Dico “auspico” perché, durante il convegno tenutosi lo scorso 5 marzo a Bruxelles, abbiamo notato una certa arretratezza da parte della confederazione degli imprenditori europei su questo tema: l’unico punto su cui battevano era quello della competitività, ingrediente non certo prioritario per la ripartenza del dialogo sociale. Nonostante ciò, di sicuro non mancheranno occasioni di confronto, sia con il segretario generale di Business Europe, l’austriaco Markus Beyrer, che con la presidente Emma Marcegaglia. Marcegaglia, in particolare, in quanto italiana, conosce bene la forte tradizione di dialogo che c’è nel nostro paese: spero lavorerà per favorire un approfondimento del confronto su questo tema fondamentale.
Lei ha dichiarato di puntare alla creazione di “posti di lavoro di qualità”: in che modo intende perseguire l’obiettivo?
L’obiettivo di creare posti di lavoro di qualità, non solo per i giovani ma anche per coloro che fanno fatica a ricollocarsi nel mercato del lavoro, non può essere perseguito se non attraverso un’inversione delle politiche di austerità a livello europeo. Da tempo abbiamo messo in campo negoziati con la Commissione per cercare di modificarne le politiche rendendole più simili a quelle americane, basate su investimenti di migliaia di miliardi di dollari nei salari e nei posti di lavoro. Da noi, per ora, anche grazie al contributo del nostro dialogo con la Commissione, siamo giunti al Piano Junker, manovra ancora insufficiente ma che rappresenta almeno un primo passo nella direzione degli investimenti, obiettivo per raggiungere il quale siamo disposti non solo a proseguire nel dialogo, ma anche, laddove servisse, a ricorrere alla mobilitazione attiva.
In questo senso, come valuta il Jobs act oggi in vigore in Italia, anche rispetto alle politiche del lavoro degli altri paesi membri?
Il Jobs act non è una novità nel panorama europeo: già altri Stati hanno varato simili riforme. Ritengo però che non sia una riforma sostanziale ma soltanto normativa e che, per questo, non inciderà sul mercato del lavoro modificandolo realmente, se non, purtroppo, cancellando alcuni diritti. Il punto è che le riforme ad oggi necessarie sono quelle macroeconomiche, da portare avanti, a livello comunitario, di pari passo con il rinnovo delle relazioni industriali e della contrattazione.
In che modo si dovrebbe articolare questo rinnovo delle politiche contrattuali?
Innanzitutto bisognerebbe cercare di rafforzare, e in alcuni casi ricostruire, la contrattazione collettiva, dato che solo con un forte e sano sistema di relazioni industriali si può davvero incidere sull’aumento salariale e della produttività. D’altronde, è ormai evidente anche alla Commissione stessa, che per lungo tempo ha spinto verso il decentramento della contrattazione verso quella di secondo livello, che questa strategia conduce a risultati fallimentari. Occorrerebbe poi approdare a un quadro giuridico universale che promuova l’estensione erga omnes, cioè a tutti i lavoratori di un determinato settore, dei contratti collettivi, attraverso meccanismi che conferiscano validità legale ai contratti collettivi per tutti lavoratori. Infine si dovrebbe agire sul rafforzamento dei salari minimi legali, esistenti ormai in diversi paesi.
A tal proposito, qual è la sua posizione in merito alla possibile introduzione, anche in Italia, del salario minimo, che viene però osteggiato dai sindacati del nostro paese?
Proprio recentemente abbiamo parlato di questo tema con i sindacati italiani: non hanno un rifiuto “di principio” del salario minimo, ma chiedono che vengano rispettati almeno due principi. Il primo è quello dell’introduzione di meccanismi che attivino la validità legale erga omnes dei contratti collettivi, l’altro è che il salario minimo venga applicato non soltanto ai lavoratori garantiti da contratto nazionale, ma anche ai precari e a tutti i lavoratori atipici. Questa infatti è la vera sfida: estendere la tutela retributiva a tutti i lavoratori, senza ghetti né esclusi.
Fabiana Palombo