L’hanno chiamata “stagnazione secolare”, per indicare un’economia che si muove a passo di lumaca, non per qualche mese o qualche anno, ma parecchi decenni. In buona sostanza, i tassi di sviluppo che, in Occidente prima, nei paesi emergenti poi, abbiamo conosciuto, in media, dalla seconda metà del secolo scorso sarebbero un accidente storico non ripetibile. L’economia mondiale, ormai, riuscirebbe a prendere velocità solo in presenza di bolle finanziarie, come quelle pre-2008. Altrimenti, è destinata al ristagno: fatti i conti, per stimolare gli investimenti, i tassi d’interesse dovrebbero essere perennemente sotto zero. E’ davvero così? Il dibattito infuria fra gli economisti, con l’intervento di pesi massimi come l’ex guru di Obama, Larry Summers e l’ex presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke.
Visto dall’Italia, che è in stagnazione ormai da un quarto di secolo, il dibattito appare paradossale, ma non per questo ci interessa di meno: se gli altri vanno piano, sarà più difficile, per noi, prendere l’abbrivio per lo sviluppo.
Il dibattito si appoggia su un dato di fatto, una sorta di legge storica: le crisi che nascono da crac finanziari, come quella del 2008, proprio perchè mettono in discussione la benzina fondamentale dell’economia, ovvero l’accesso e la disponibilità di credito, sono più pesanti e durano più a lungo. E questo è il caso della crisi attuale. Lo certifica il Fondo monetario internazionale nel suo Rapporto di primavera sull’economia mondiale. L’idea che l’America già viva una ripresa robusta e solida e che l’Europa si sia finalmente rimessa in movimento, per merito o meno del Quantitative easing di Mario Draghi, non regge: la ripresa, dice il Fmi, è fragile e incerta anche negli Stati Uniti e, a maggior ragione, in Europa.
A peggiorare le cose, ci sono i paesi emergenti – Cina in testa – dove i contraccolpi sono anche più pesanti. Insomma, non abbiamo voltato pagina: il ritorno ai tassi di sviluppo pre-2008 è ancora molto lontano e problematico.
L’argomento del Fmi è tecnico: in seguito alla crisi i “limiti di velocità” che non si possono superare senza surriscaldare il motore sono diventati più bassi. In altre parole, mentre, prima della crisi del 2008, le economie dei paesi avanzati potevano crescere di del 2-2,5 per cento, senza creare inflazione, oggi quel limite si è avvicinato all’1 per cento. Per i paesi emergenti, la frenata è dal 7 al 5 per cento.
Dall’una e dall’altra parte, la popolazione invecchia e gli investimenti sono troppo timidi. Ma ci sono anche fattori più specifici che oscurano il futuro o, per dirla con gli economisti, rallentano la crescita della produttività. Nei paesi emergenti, come la Cina, l’importazione delle tecnologie occidentali e la scolarizzazione della forza lavoro hanno determinato, negli scorsi decenni, un balzo che oggi non appare ripetibile, in assenza di fenomeni della stessa portata. Nei paesi avanzati, ci vorrebbe un’altra rivoluzione tecnologica come quella del computer e di Internet per riproporre i tassi di sviluppo registrati a cavallo del millennio.
Questo significa che, anche nei paesi occidentali, dice il Fmi, “gli standard di vita miglioreranno più lentamente in futuro, di quanto abbiamo registrato in passato”. Non è l’unica tegola che ci capita fra capo e collo, mentre ci congratuliamo fra noi, saltando dalla percezione di timidi segnali di scongelamento dell’economia alla conclusione che inizia una fase di sviluppo vivace. Quello sviluppo rischia, invece, di non esserci affatto. E le conseguenze del ristagno, , per l’Italia, sono più gravi che per altri paesi. Meno sviluppo significa, infatti, che la base imponibile crescerà più lentamente. E, con meno soldi dalle tasse, il debito pubblico sarà meno sostenibile. Per l’Italia, con il debito a 2 mila miliardi di euro, è un nodo scorsoio che si stringe.
Maurizio Ricci