Lo statuto dei lavoratori compie quarantacinque anni. Una bella età anche per una legge così importante, un’età alla quale si pensa doverosamente a una sua revisione, perché è cambiata la società per la quale la legge era stata pensata, perché i riferimenti politici ed economici sono ormai altri. E’ inutile dire quali e quante sono le ragioni per una sua rivisitazione. E infatti in questi anni di interventi correttivi ce ne sono stati. Qualcuno opportuno, altri meno. Per tutti viene in mente quello operato con il referendum del 1995 con il quale la sinistra radicale, politica e sindacale, cambiò l’articolo 19, quello che si riferiva alle rappresentanze sindacali. Fu un errore, anche grave, perché si cancellò la dizione per la quale erano abilitati ad avere rappresentanze in fabbrica i sindacati maggiormente rappresentativi, per lasciare questo diritto solo ai sindacati firmatari di un accordo applicato nell’azienda: con il risultato paradossale che quindici anni dopo la Fiom non poté più avere proprie Rsu nelle fabbriche Fiat perché non aveva firmato né il contratto nazionale, né il contratto di gruppo.
Ma quello, appunto, fu un incidente. Poi ci sono stati altri aggiustamenti, soprattutto sull’articolo 18, che si riferisce alla possibilità di annullare dei licenziamenti, sull’articolo 4, relativo ai controlli audiovisivi, e all’articolo 13 sulle mansioni dei lavoratori. Interventi giustificati dall’età della legge? Non sempre, in verità. Perché è giusto certamente intervenire per correggere alcune indicazioni superate ampiamente dalla tecnologia, ma non è altrettanto giusto farlo per eliminare alcune protezioni a difesa del lavoratore, della sua dignità, del suo lavoro. Questa non è una difesa aprioristica dei diritti dei lavoratori. Ci sono alcune conquiste, anche importanti, raggiunte in anni felici, in anni ricchi, che sono state abbandonate. Perché le condizioni economiche erano cambiate e quei diritti, anche se importanti, non potevano più essere difesi e mantenuti. A volte la realtà costringe a qualche sacrificio ed è difficile, se non inutile, opporsi. Altre volte invece sono messi in discussione dei diritti che appartengono alla sfera più intima del lavoratore e per questo non è giusto né etico lasciar fare.
Quando è opportuno impuntarsi? Dove passa la linea di demarcazione tra questi due territori? Non è scritto da nessuna parte, è la coscienza collettiva che deve dirlo, anche se non è facile. Certo è che se si lascia correre sempre si rischia di snaturare la realtà del lavoro. In questi anni il lavoro ha perso gran parte del suo valore etico (oltre a quello economico) e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. E’ diventato sempre più importante non il lavoro che si fa, ma quanto si guadagna. La fierezza del lavoro non esiste più e questo ha creato dei profondi guasti nella società, snaturando il lavoro. Adesso comincia, anche se assai lentamente, a ricrearsi la coscienza della necessità di ricreare il valore del lavoro, ma non è certo abbandonando importanti diritti dei lavoratori che il risultato può essere acquisito. Il sindacato è chiamato a questo gravoso compito: deve scegliere dove impuntarsi e dove accettare il cambiamento, per quanto doloroso. Nella misura in cui riuscirà in questo compito si valuterà la sua forza, la sua possibilità di avere un futuro ancora significativo. Gino Giugni, scrivendo il testo dello statuto, ebbe a cuore proprio il futuro del sindacato, per dargli l’opportunità di una crescita sociale ed etica, che poi c’è stata ed è stata importante. Adesso si tratta di operare con la medesima tensione morale. L’alternativa è il lento declino del lavoro e del sindacato.
Massimo Mascini