Gianni Manghetti (vedi “La grande occasione? Indicare la via di uscita dalla crisi “, pubblicato sul Diario del Lavoro il 28 aprile) dimostra molta benevolenza nei confronti delle organizzazioni sindacali, in specie quelle dei dipendenti pubblici. Sostiene che da loro, con premessa di autocritica, dovrebbe venire una iniziativa per affrontare i problemi del funzionamento della macchina pubblica nell’interesse generale del Paese. Ed evidentemente si aspetta che ciò sia possibile. Qui è l’errore. La cosa non è possibile.
Perfino nei luoghi della classe operaia dei Cipputi più politicizzati, salvo casi eccezionali, non si è verificato che partissero dai lavoratori e dalle loro organizzazioni sindacali iniziative e lotte che avessero di mira ristrutturazioni e riorganizzazioni finalizzate a produttività, competitività, efficienza ecc. Il massimo si è visto in tentativi di Conferenze di produzione, negoziati per investimenti al Sud, propaganda sul nuovo modo di fare l’automobile e consimili. Lo stesso Protocollo IRI nasce per iniziativa del padrone e si concretizza in un fiasco colossale perché non preso sul serio da nessuno dei contraenti. Una iniziativa del genere può nascere quando c’è l’evidenza che essa possa tradursi in progresso della condizione professionale, di ruolo, di garanzia occupazionale e di miglioramento retributivo. Se queste aspirazioni coincidono con un interesse generale, allora bingo! Ma resta raro che ciò possa avvenire.
Fino ad ora le ristrutturazioni sono avvenute per iniziativa del padrone, privato o pubblico che fosse. A fronte di queste iniziative per i lavoratori e i sindacali c’è la scelta tra stare nel gioco difendendo i propri interessi oppure mettersi di traverso. Abbiamo visto tante di queste situazioni estreme e tutte le vie intermedie con i dosaggi più diversificati.
Oggi nel mondo dell’impiego privato (industria o terziario che sia), al di la delle chiacchiere sulla partecipazione, nelle teste di chi comanda l’idea è che per funzionare gli ingredienti sono due: comando e obbedienza. Nel mondo dell’impiego pubblico neanche questo. Chiaro che in qualsiasi situazione il buon funzionamento dipende da chi ha ruoli di direzione. La politica proclama di volere mettere mano; in parte è obbligata a farlo perché i conti non tornano; ma è debolissima nei confronti del corpo dei dirigenti. Se non sono i dirigenti, insieme alla politica responsabile, a sposare la causa dell’innovazione si andrà verso ulteriore logoramento con difficoltà a governare crisi che potranno riguardare anche grandi strutture. Ma è molto difficile che possa verificarsi tale assunzione di responsabilità.
E allora?
Allora la via è la rivolta degli utenti che possibilmente sia indirizzata verso chi comanda piuttosto che verso chi sta dall’altra parte dello sportello. Questo è compito che spetta alle Confederazioni che devono volerlo svolgere anche governando contraddizioni e conflitti che si possono manifestare all’interno stesso del mondo del lavoro tra gruppi e categorie. Per prendere in mano questo ruolo le Confederazioni devono archiviare la favola secondo la quale i lavoratori sono spontaneamente uniti per il superiore interesse generale del Paese. No: bisogna riconoscere che anche il mondo del lavoro è fatto di corpi separati; che si giustifica una dialettica degli interessi differenti che esistono e che talvolta sono in conflitto fra di loro. E’ bene che questa dialettica si manifesti, sia ammessa, organizzata e governata da chi ha il compito della direzione generale. E’ un compito immane al quale si è impreparati. Ma questo è il modo di essere utili ai lavoratori e al Paese in questa fase.
Aldo Amoretti