Un dibattito estivo , spesso confuso, ci ha ricordato sulle pagine di diversi giornali che i sindacati sono in crisi ( non solo in Italia). Come ci suggerisce Massimo Mascini su queste colonne non ci troviamo di fronte a delle scoperte.
Piuttosto alla ripetizione di una vulgata , che non ci chiarisce le idee sul tipo di ‘crisi’ ( parola inflazionata) cui stiamo assistendo . Ormai che questa difficoltà esista e sia rilevante appare abbastanza assodato. Anche senella letteratura scientifica le sue declinazioni sono tante, e si usano svariati concetti, come restringimento, ridimensionamento, riduzione fino a quello più impegnativo di declino ( Guido Baglioni ha invece usato l’immagine dell’accerchiamento).
Uno dei tasti che sono stati battuti con maggiore insistenza riguarda la contrazione, vera o presunta , degli iscritti. Questa è una materia sulla quale l’accertamento e la certificazione dei dati, che già avvengono da tempo nel pubblico impiego, sarebbero necessari per porrebbe fine ad inutili contenziosi. Ma in attesa di questo salto (prefigurato, ma finora non realizzato,negli accordi tra le parti in materia di rappresentanza), quello che possiamo dire in prima approssimazione , e in ragione di rilevazioni abbastanza consolidate è che la crisi dei sindacati italiani non riguarda ( principalmente) la membership. Anzi, almeno fino a poco tempo fa, si poteva dire ragionevolmente – come facevano gran parte degli studiosi italiani e stranieri – che se nella maggioranzadei sindacati occidentali veniva registrata una riduzione – più o meno drammatica – degli iscritti, invece il sindacalismo italiano teneva e cresceva ( a piccole dosi ) sotto il profilo associativo.
Dunque , almeno per ora, la crisi sindacale italiana non riguarda i numeri e le quantità, che per tante ragioni ( servizi, pensionati, buona offerta organizzativa etc.) restano solidi. Vedremo nei prossimi mesi se da questo punto di vista verranno individuate tendenze diverse o flessioni significative.
Allora il problema è non di membership, ma di influenza : riguarda in primo luogo la capacità dei sindacati di imporsi agli interlocutori e alle controparti condizionando le loro decisioni. Quindi si tratta con evidenza di un nodo qualitativo, che investe il peso e l’incidenza sindacale tanto nell’arena politica , che nel sistema delle imprese.
In effetti i dati proposti da Diamanti, all’interno di un articolo peraltro deludente ( “La solitudine del sindacato”, Repubblica, 31 Agosto), raccontano piuttosto – se confermati – un’altra storia. Non quanto sia forte e radicato il sindacato presso la sua naturale constituency, che è composta dal mondo del lavoro nelle sue diverse articolazioni. Ma quanto è avvertito dai cittadini in generale e dalla società in generale come un soggetto che conta, che svolge una funzione importante non solo rispetto a quella platea vocazionale, ma anche rispetto ad un palcoscenico più ampio. Quei dati ci dicono in effetti che la popolazione nel suo insieme mostra meno fiducia nei sindacati e attribuisce loro meno fiducia. Eppure, a ben vedere, questa caratterizzazione ‘politica’costituiva una anomalia – anche se una anomalia positiva – del sindacalismo italiano nello scenario internazionale. L’essere capace di svolgere un compito di portata vasta e nazionale, grazie ad inclinazioni verso l’interesse generale che hanno prodotto nel corso del tempo varie derivate dalla ‘supplenza politica’ alle varie tentazioni ‘pansindacali’ . Non casualmente una delle espressione emblematiche , e trasversalmente condivise, dal nostro mondo sindacale è stata quella del ‘sindacato soggetto politico ’. Ora i dati di Diamanti, se sono fondati, ci dicono che esso ha perso in capacità attrattiva presso una parte della popolazione, oltre che forse presso una parte della sua base sociale tradizionale (in particolar modo gli operai). E’ diventato un soggetto più normale, e per cosi dire ‘laterale’, più simile ai sindacati di altri paesi. I quali in prevalenza svolgono , più o meno bene, un ruolo ‘settoriale’ , non ‘generale’.
E’ un bene o un male questo ‘affievolimento’( così abbiamo introdotto un’ altra definizione) della sua funzione generale? A mio avviso è un male o comunque solleva dei problemi, anche se non è un male che nuoce del tutto.
Vale la pena per capirlo di richiamare una piccola storia.
Dopo gli anni del grande boom sindacale ( settanta), le nostre Confederazioni sono restate al centro della scena grazie soprattutto alla concertazione ( anni novanta), anche al di là dei risultati conseguiti attraverso gli accordi tripartiti . E nell’ultimo quindicennio si è a lungo protratta la scia della loro capacità di rimanere protagonisti nello spazio pubblico, dovuta in primo luogo alle abili mosse di Cofferati. Le cui scelte hanno tenuto insieme un richiamo mobilitante ai valori classici della sinistra politica e una grande questione simbolica , imperniata sulla difesa dell’art.18, usato come formidabile spartiacque valoriale.
Ma questa funzione tende ad esaurirsi in mancanza di una sponda politica, sia favorevole (governo amico), che contraria (come sono stati i governi Berlusconi, i quali però hanno dovuto fare i conti con questa spinta).
Ma la posizione elaborata e poi lasciata in eredità da Cofferati è risultata sin dal principio non solo azzeccata, ma anche strutturalmente ambivalente.
E’ stata azzeccata perché ha consentito ai sindacati (principalmente alla Cgil) di stare sotto i riflettori e di godere di una elevata visibilità, anche in ragione del contenzioso che implicava con la sinistra politica.
Ma rischiosa perché conteneva il rischio di intrappolamento dentro una collocazione comunque difensiva, e sempre meno evocativa per una parte crescente di lavoratori. Di tradursi quindi in un fattore di mobilitazione sociale , ma anche di facilitare tentazioni conservatrici.
Merito di quella intuizione è stato di aver consentito al sindacato di prolungare il suo alone generale e di proiettarsi oltre i confini tradizionali o oltre ambiti ristretti. Ma a questo punto si deve prendere atto dell’avvenuto esaurimento di quella lunga fiammata.
Il governo Renzi ha sancito in modo esplicito – forse imprevisto ma netto – la fine della stagione della concertazione, e delle decisioni condivise con le parti sociali in materia di politiche pubbliche.
Questo mette i sindacati di fronte alla necessità di una cambio di rotta, che può non essere solo un male o un problema.
A questo punto infatti è bene che i sindacati facciano fino in fondo i conti con quella che lo studioso inglese Richard Hyman ha definito la ‘maledizione delle istituzioni’: del rapporto con le istituzioni e il sistema politico i sindacati non possono fare a mano, ma questo riproduce continuamente dilemmi ed effetti non positivi. Diventa una occasione per evitare la cattiva dipendenza dalle risorse pubbliche e riprendere ad agire verso la politica non alla ricerca di protezioni, ma per misurarsi con temi e riforme di importanza sistemica. Magari per una fase le relazioni con i governi nazionali non saranno praticabili, ma restano tanti fili e tante politiche pubbliche anche locali sulle quali non mancano le occasioni di misurarsi. E poi soprattutto , in attesa di una possibile riedizione di scenari nazionali favorevoli, per i sindacati questa impasse costituisce anche l’occasione per spostare verso il basso il loro baricentro sociale. Tornare ad occuparsi dal ‘ di dentro’ della condizione di lavoro, in tutte le realtà produttive, ma soprattutto nei territori : nei quali è possibile reimpostare un grande gioco di riaggregazione sociale, di contrattazione che solleciti anche le imprese minori, di impegno comune tra le parti per il rilancio della produttività e della competitività.
Se i sindacati saranno in grado di rispolverare ed aggiornare una parte dei loro vecchi mestieri e di vicinanza al mondo dei ‘lavori ‘ plurali si metteranno in condizione di recuperare rappresentanza, come si usa dire ‘dal basso ’. E dunque anche di riposizionarsi, con una strategia ripensata, su versanti nuovi pure sul palco delle decisioni pubbliche e generali.
Mimmo Carrieri