Il segretario generale dei metalmeccanici della Cisl crede che sia possibile riformare il sindacato, ma questa azione deve essere profonda e senza scrupoli. E crede anche che si debba arrivare al sindacato unico.
Marco Bentivogli, che sia crisi o declino poco importa, ma il sindacato è certamente in difficoltà. Che sta succedendo?
Quello che dovevamo aspettarci dalle nostra scelte. Questa fase difficile non nasce dal nulla. E non nasce adesso. Mi ricordo un articolo di Ilvo Diamanti degli anni 90 nel quale disse che la concertazione era importante, dava risultati, ma la partecipazione si stava raffreddando. Era un segnale, importante, ma non fu colto.
Eppure gli anni 90 sono stati tra i migliori per il sindacato.
No, non del tutto. Anche allora commettemmo l’errore che stiamo rifacendo adesso, non pensammo a un’autoriforma.
Non ci fu nel ’93 la nuova contrattazione e soprattutto non nacquero le Rsu, le nuove strutture di base del sindacato?
Queste ultime furono molto importanti, fu una scelta moderna e in qualche maniera salvifica. Perché spostava il potere contrattuale in fabbrica, il delegato aveva davvero forti responsabilità nella contrattazione.
E non bastò?
No, perché non cambiò la testa dei sindacalisti. Non ci fu protagonismo di fabbrica, il potere restò nelle mani delle confederazioni. Le prerogative conferite ai delegati non furono esercitate.
E oggi?
Oggi la concertazione non c’è più, è stato Berlusconi il primo a metterle la sordina. Ma non ho alcuna nostalgia. Perché questo ci porta al dunque, dobbiamo riformarci. Anche perché, lo diceva Pierre Carniti, o le cose le facciamo noi o le cose le fanno gli altri contro di noi. E questo proprio non lo vogliamo.
Che deve fare il sindacato?
Tante cose. Come ha cominciato saggiamente a fare la Cisl, deve ridurre il numero delle categorie. Poi deve ridurre il numero dei contratti nazionali, ce ne sono 80 nella sola industria, in tutto sono 708. Poi deve riuscire a intercettare nuove persone e nuove esigenze. Non ci basta più guardare a quello che emerge, dobbiamo scavare a fondo nella società. E poi serve un sindacato diverso, più intelligente, più capace, più competente.
Deve cambiare la sua natura?
In qualche misura sì. Deve per esempio cambiare la contrattazione. Io sono sempre più convinto della necessità di virare verso la contrattazione territoriale, che riesce a cogliere le esigenze dei lavoratori e delle imprese in un dato territorio. E ci servono anche altre forme di bilateralità, capaci di portare in superficie gli invisibili, che devono diventare visibili e centrali. E poi dobbiamo guardare con più disincanto al problema del sindacato unico.
Che fa, sale sul carro di Renzi?
Il presidente del Consiglio ha indicato un problema nostro e io accetto la provocazione. La proliferazione sindacale è solo un sintomo di debolezza e spinge verso il degrado del corporativismo. Credo che la proliferazione sia inversamente proporzionale alle necessità di tutela. Servono regole stringenti per sindacati e imprese. Che peraltro ci sono già, sono quelle del Testo unico.
Che però non è ancora attuato.
Siamo in attesa che le imprese aderiscano dando all’Inps i dati sulle affiliazioni. Ma quello che importa è che scenda il numero dei sindacati. In Fiat ci sono 7 sindacati e questo è un limite all’azione quotidiana, rende impraticabile la partecipazione.
La coesistenza tra Cgil, Cisl e Uil è un danno?
Sia chiaro, Cgil, Cisl e Uil negli anni hanno rappresentato un valore straordinario. Ma adesso le divisioni ci bloccano. Dobbiamo essere in grado di fare un vero check up, capire cosa ci divide davvero e agire di conseguenza, senza avere paura del calo delle poltrone che inevitabilmente qualsiasi accentramento comporta.
Le scelte fatte dal contratto Fca vanno in questa direzione?
Quelle norme sul consiglio delle Rsa è un prologo, serve a dire che è necessario avere una sola voce, che valga il principio di maggioranza e che la minoranza deve adeguarsi a quanto deciso dai più. Perché la codeterminazione è possibile se si ha un solo interlocutore, così si eliminano le interpretazioni corporative. E giustamente Annamaria Furlan ha detto che una regola deve valere anche per proclamare gli scioperi, in modo che possa farlo solo chi ha almeno il 5% della rappresentanza totale.
Lei parla di cambiamenti davvero molto forti.
Ma nell’industria 4.0, che noi tutti stiamo costruendo, non ci sarà spazio per i corporativismi. La fabbrica intelligente ha bisogno di un sindacato intelligente o di nessun sindacato. E le differenze il sindacato deve risolverle al proprio interno. Altrimenti saranno i lavoratori a non capire più l’utilità del sindacato.
Non metto in dubbio che sia necessario, dico che è difficile.
Sì, ma la direzione è necessariamente quella dell’autoriforma. Che non è una cosa di oggi. Nel 1996 Sergio D’Antoni propose di sciogliere la Cisl e creare un sindacato unico, Cofferati e Larizza gli opposero un niet. Si tratta di riprendere quella proposta sapendo che la riforma verrà, se la facciamo noi, se la fa la legge o se la fa la storia, la nostra gente. Si tratta di fare delle scelte. La Cisl, per esempio, ha deciso formalmente di destinare il 70% delle risorse alle territoriali, è un sintomo preciso di andare alla contrattazione territoriale. Questo dobbiamo fare, decidere alcuni cambiamenti e perseguirli con forza. Scelte rifondative, radicali, rigeneratrici. Abbiamo un foglio bianco davanti, possiamo riempirlo di quello che vogliamo e di quello che serve. Dipende da noi. Senza curarci del revival rappresentato da chi non ha smaltito i fondi di bottiglia dell’estremismo ideologico.
Ma lei pensa davvero che questa autoriforma, così in profondità, sia possibile?
Sì, io credo che sia assolutamente possibile farcela. Quando ho scelto di fare il sindacalista ho messo assieme le mie idealità, i miei valori e la possibilità di realizzarli, di renderli reali. Il sindacato condannato alla testimonianza e alle denuncie è marginale, fa tenerezza. Io non condannerò mai la Cisl a essere una tigre senza denti. Come fanno altri.
Massimo Mascini