Nel dibattito che in questi ultimi tempi si è acceso attorno al tema del sindacato si confondono quasi sempre due piani. Uno è quello della “alta teoria”, per così dire, delle “relazioni industriali”, del ruolo del sindacato nella società contemporanea; l’altro è quello del ruolo effettivamente giocato dal sindacato nelle dinamiche sociali ed economiche dei nostri giorni.
Più che di una confusione di piani, si dovrebbe parlare di una egemonia del primo sul secondo, talmente forte da monopolizzare l’attenzione e da mettere nell’ombra gli aspetti relativi al secondo piano. Gli studiosi (tra i quali per quel che possa contare includo anche me stesso) e gli esponenti sindacali hanno un bel dire che una moderna “governance” richiede la partecipazione dei “corpi intermedi”, che il sindacato è una componente essenziale del sistema politico democratico, che esso è un cardine della “rappresentanza sociale”, che un suo declino comporterebbe un alto rischio di deviazione da un equilibrato processo di sviluppo economico e sociale. Dietro questa bandiera concettuale suonano le trombe con particolare vigore tutti coloro che stigmatizzano i processi di ridimensionamento del ruolo del sindacato ad opera della attuale leadership politica d’intesa con alcuni settori di parte imprenditoriale. Ovviamente non si raccolgono sotto questa bandiera coloro che professano la fede neo-liberista o ordo-liberista. Il confronto tra queste posizioni è interessante, ma non è su questo che intendo ora richiamare l’attenzione. E’ piuttosto sul secondo aspetto che intendo suggerire alcune considerazioni, anche se nutro dubbi che vengano prese appunto “in considerazione” da coloro cui principalmente si riferiscono.
Non c’è dubbio che il sindacato stia vivendo nel nostro paese un progressivo indebolimento nel contesto dei processi sociali ed economici degli ultimi tempi. Non mi riferisco tanto agli indicatori tradizionalmente utilizzati per misurare lo stato di salute del sindacato ( densità, tasso di copertura, grado di concentrazione, grado di coordinamento); come tutti sanno, in Italia questi indici (soprattutto i primi due) mostrano ancora una buona tenuta. Mi riferisco piuttosto a due altri indicatori: la capacità di migliorare (o almeno difendere) le condizioni dei lavoratori e la capacità di riscuotere la fiducia sia dei lavoratori, sia degli altri attori sociali. Che il sindacato stia fallendo su entrambi questi fronti è sotto gli occhi di tutti. Ciò che invece sorprende chi abbia contatti con il mondo del lavoro è rilevare come proprio dai lavoratori provenga in larga misura un calo di fiducia nel sindacato. Che questo atteggiamento si manifesti da parte datoriale può essere dato per scontato, ma che siano i lavoratori stessi ad esprimere spesso un giudizio negativo sul sindacato è sicuramente un fatto paradossale. Poiché la continuazione di questo processo rischia di indebolire talmente il sindacato da rendere superflue tutte le disquisizioni relative al primo piano del dibattito a causa della scomparsa stessa del soggetto, occorrerebbe impegnarsi ad individuarne e a contrastarne le cause.
Certamente molte cause concorrono a determinare questo processo, ma un fattore di importanza fondamentale risiede nelle pratiche operative del sindacato stesso. Per questo si potrebbe parlare di “eutanasia”: sono precisamente i comportamenti degli organi sindacali a difettare di alcuni requisiti necessari per evitare la sua emarginazione. Se il sindacato non ha la forza di prendere coscienza di questo e di provvedere in proposito con un profondo e radicale rinnovamento è molto difficile che la tendenza al suo declino venga fermata.
Il primo elemento di inadeguatezza è la rinuncia a difendere i singoli lavoratori nei loro problemi di lavoro. Quante volte i singoli lavoratori sono stati lasciati soli nei loro problemi di lavoro e non hanno potuto contare sul sostegno dei rappresentanti sindacali! Costoro a livello aziendale vengono spesso visti dai lavoratori come interessati a ottenere vantaggi personali per sé o per la propria cerchia di amici, piuttosto che a farsi carico dei loro reali problemi di lavoro; a livello extra aziendale vengono percepiti come disinteressati all’effettiva difesa dei lavoratori e intenti a spartirsi posizioni e rendite negli enti statali, para-statali e para-sindacali. E’ quello che gli economisti chiamano un “problema di agenzia”. I lavoratori subiscono forse una percezione sbagliata? Se è sbagliata, bisogna prendere provvedimenti per correggerla; se non è sbagliata bisogna adottare misure radicali per stroncare questa pratica. Ignorare il fenomeno o adottare strategie per nasconderlo non fa che peggiorare il problema.
Il secondo limite sta nella assenza di competenze. Come si può pensare diassumere le posizioni corrette, di incidere nei processi decisionali se si ha un deficit di conoscenza effettiva della realtà, delle problematiche affrontate e delle relazioni macro e microeconomiche su cui le decisioni si ripercuotono? Come si può evitare di essere aggirati nelle trattative, di non scorgere le trappole spesso nascoste negli accordi e nei provvedimenti se si ha un deficit cognitivo sui termini dei problemi in questione e se si manca di una visione complessiva delle dinamiche sociali? Come si fa a non subire acriticamente provvedimenti sbagliati e continui arretramenti delle condizioni dei lavoratori se non si riesce ad opporre argomentazioni fondate ma solo vacue formule rituali? La fine dell’analfabetismo economico e sociale di gran parte degli operatori sindacali attraverso un serio investimento nella loro formazione è il secondo problema da risolvere; ma studio e ricerca sono parole spesso ostiche per il sindacato, nonostante la presenza di qualche struttura a ciò formalmente preposta.
Il terzo limite è dato dalle forme di presenza, dagli strumenti di azione utilizzati dal sindacato nei confronti delle controparti e delle autorità di governo. I soliti scioperi del venerdì, le “assemblee” durante gli orari di lavoro, le procedure che sanno di cerimonie rituali, le locuzioni gergali obsolete, si rivelano spesso come pantomime che danneggiano altri lavoratori e indispongono l’opinione pubblica senza operare alcuna pressione efficace sulle aziende o sul governo. L’assenza di azioni e comportamenti che effettivamente incidano sulle decisioni riguardanti le condizioni dei lavoratori è evidente. Le controparti guardano con aria di sufficienza questo debole e spesso folkloristico agitarsi del sindacato, spesso privo di convincenti strumenti e contenuti di comunicazione.
Dire queste cose non è voler male al sindacato, casomai è “voler male” a quei sindacalisti che non vogliono prendere atto della realtà e rimuovere i fattori che impediscono un rafforzamento del ruolo del sindacato; costoro, peraltro, sopportano con fastidio (anziché esserne grati) chi, all’interno o all’esterno dell’organizzazione, mette in luce questi fattori di debolezza.
Ciò detto, bisogna però precisare che la rimozione di questi fattori è soltanto una condizione necessaria, imprescindibile, ma di per sé non sufficiente per rivitalizzare il sindacato. A questo fine occorre misurarsi con almeno tre fenomeni che richiedono un profondo rinnovamento strategico sia sul piano dell’organizzazione sia sul piano dei contenuti dell’azione: l’infittirsi delle interdipendenze strutturali; la progressiva individualizzazione delle mansioni e dei rapporti di lavoro e l’internazionalizzazione dei sistemi produttivi. Ciascuno di questi fenomeni meriterebbe una riflessione articolata per arrivare a conclusioni operative.; qui si può offrire solo qualche spunto.
Il primo, poiché i lavoratori di un settore sono sempre più consumatori di beni e servizi prodotti dai lavoratori di altri settori, rende più complicata la stessa funzione di “rappresentanza degli interessi dei lavoratori” e richiede da un lato un forte coordinamento armonizzante fra le rivendicazioni delle diverse “categorie” e dall’altro una consapevolezza profonda di tutte le interconnesse variabili da cui le condizioni dei lavoratori dipendono nella moderna società complessa. Ciò comporta anche il coinvolgimento, nelle procedure negoziali e nelle intese, di una pluralità di soggetti, tra cui in primo luogo lo Stato (qualcosa come un “patto sociale”? ). Senza tale coinvolgimento non si vede come le organizzazioni dei lavoratori possano tutelare gli interessi di tutta la “forza lavoro”, cioè anche di quella momentaneamente “in cerca di occupazione”, cosa che infatti generalmente non viene fatta. Va notato come a un coinvolgimento di tale portata si ricorra in situazioni di emergenza (peraltro piuttosto frequenti) di “crisi aziendali”. C’è da chiedersi perché esso non possa essere adottato come metodo permanente di “problemframing” e di “problemsolving”. Proprio da tali interdipendenze strutturali dipende anche il dovere, per il sindacato, di misurarsi sui temi della politica industriale, delle politiche di welfare, delle politiche di sviluppo, delle politiche fiscali, della politica del lavoro, e così via. Le interconnessioni degli “interessi dei lavoratori” con tali politiche richiedono che si alzi lo sguardo oltre le problematiche strettamente legate all’ambito aziendale.
Il secondo fenomeno, su cui molte analisi si sono soffermate, è quello della individualizzazione dei rapporti di lavoro, che consegue alla scomparsa dell’”operaio massa” a favore di un ruolo più personalizzato e più responsabilizzato del lavoratore o di gruppi di lavoratori, di ogni livello, nei processi produttivi. Peraltro la prevalenza di imprese di piccolissime dimensioni rafforza il carattere personale del rapporto di lavoro e indebolisce, per non dire, annulla, il peso del sindacato a livello locale e la stessa possibilità di “contrattazione collettiva” decentrata in tali imprese. Non è necessario aumentare le descrizioni di questo fenomeno; è necessario invece che il sindacato individui nuove forme di aggregazione e di organizzazione dei lavoratori (perché non pensare, per esempio, all’utilizzo di forme digitali di associazione, di elaborazione, di formazione delle decisioni sindacali nonché di controllo democratico dell’azione dei rappresentanti?). A questo va accompagnata la ricerca di nuove forme e nuovi strumenti di azione del sindacato , il quale, sulla base di una profonda conoscenza, deve non solo essere disponibile, ma elaborare e promuovere innovazioni nell’organizzazione del lavoro e nelle dinamiche della produttività, capaci di migliorare le condizioni di lavoro e le retribuzioni unitamente alla performance economica dell’impresa. Ciò è possibile nel quadro di una impresa “snella”, basata sulla conoscenza e sulla co-responsabilizzazione attiva dei lavoratori non solo con riferimento alle dinamiche della “productivity” del lavoro , ma anche e soprattutto alle dinamiche della “productiiviness” dei lavoratori. Bisogna sottrarsi alla tradizionale visione della contrattazione come gioco a somma zero (anche perché in questo caso i lavoratori rischiano di finire in fin dei conti sotto zero) e dare alla contrattazione un respiro più ampio, legandola ad adeguate forme di partecipazione per regolare in tale contesto anche i problemi più delicati, come quelli dei licenziamenti individuali e del cambiamento di mansioni. Certo, dire che le organizzazioni dei lavoratori devono arrivare a saperne più dei managers è un po’ troppo, ma ugualmente troppo è pretendere di prender parte ai processi decisionali relativi alle scelte gestionali partendo da una crassa ignoranza e limitandosi a un solo ruolo di rivendicazione di diritti.
Il terzo fenomeno è anch’esso molto studiato. Si tratta dell’internazionalizzazione della produzione, con il connesso enorme potere delle grandi multinazionali e la connessa arma della localizzazione disponibile anche per le “piccole multinazionali”. Ci sono in questo campo evidenti responsabilità e ampi spazi di azione per i responsabili della politica economica, ma con riferimento al ruolo del sindacato appare del tutto sorprendente l’assenza di un coordinamento internazionale che arriva in taluni casi a risolversi addirittura in aperta competizione nell’offrire condizioni lavorative al ribasso per contendersi la localizzazione delle imprese. Se il sindacato è nato proprio per impedire che la concorrenza tra i lavoratori apra poteri illimitati alla parte imprenditoriale questo comportamento dei sindacati nazionali sembra proprio tradire il primo fondamento della loro ragione d’essere. Un forte coordinamento internazionale potrebbe essere l’arma decisiva per neutralizzare o contenere il forte potere attribuito alle imprese dalla assoluta mobilità dei capitali e delle merci. Ma il sindacato sembra rinunciare a questo e confidare più nella possibilità di agire congiuntamente in sede europea, nel comitato economico sociale o in altri organismi istituiti per il cosiddetto “dialogo sociale”. Ci sembra di non poter condividere questa fiducia. Le decisioni prese dai soggetti comunitari (tanto quelli formali quanto quelli informali) sono immuni da influenze di questo tipo; essi rispondono ad altre logiche e ad altri poteri.
A conclusione di questa brevissima riflessione si può dire che gran parte dell’attuale declino del sindacato è dovuto da un lato alla sua incapacità di correggere alcuni comportamenti devianti e dall’altro dalla sua incapacità di esprimere una progettualità e di farsi promotore di processi innovativi nella società e nei processi produttivi a beneficio di tutta la “forza lavoro”. Da ciò deriva la necessità che il sindacato si dedichi a individuare non solo nuovi strumenti ma anche nuovi contenuti della sua azione. E’ un percorso difficile e impegnativo, perché, come per ogni istituzione, è difficile abbandonare le consolidate routines comportamentali e individuare nuove modalità di azione. Ma bisogna tener presente che le routines rappresentano una valida modalità di risposta quando si affrontano problemi di un tipo già risolto; ma quando si tratta di affrontare situazioni appartenenti a una classe di problemi nuovi, le vecchie routines non offrono soluzioni. Allora entrano in ballo due nuove capacità: quella di “problemframing” e quella di “problemsolving”. Se il sindacato non sarà capace di impegnarsi in questo allora sarà appropriato parlare di una sua eutanasia.
Sebastiano Fadda