L’evanescenza dei corpi intermedi emerge nel momento in cui chiedono a governo e parlamento di intervenire su temi delicati come assetti contrattuali e rappresentanza: un suicidio collettivo di ruolo delle parti sociali. La rappresentanza dipende dai rappresentati ed è una funzione professionale non professionistica I lavoratori e le imprese sono parti di una comunità ma gli uni e gli altri hanno molto da correggere nelle rispettive posizioni.
Continuo a domandarmi in questi giorni quanto la teoria di Zygmunt Bauman sulla società liquida pesi, e continui in lunga prospettiva a pesare, sul nostro futuro e, perché no, sul futuro dei corpi intermedi di rappresentanza, del lavoro e di impresa, anche se questa non è certo la questione di maggior rilievo.
Nella mia (scarsa e parziale) visione dei fenomeni in corso e nei miei (incerti) tentativi di comprensione, intuisco fili rossi di collegamento tra la caduta del muro e la globalizzazione, globalizzazione e mondo digitale, morte delle ideologie e radicalizzazione delle religioni, evoluzione dei bisogni e mutamento delle imprese e del lavoro, crisi della comunità e crisi delle identità, prepotenza dell’individuo e debolezza della persona, forza della paura e flebilità della cultura.
Tutto ciò premesso, e dichiarata impotenza a comprendere, non rinuncio a cercare spiegazioni, e se possibile sentieri di ripresa, al problema della crisi dei corpi intermedi in Italia. Non ho dubbi che la crisi maturi nel momento stesso in cui più elevato è l’impatto delle rappresentanze di impresa e lavoro nelle vicende italiane.
In poco più di 20 anni, da una fase di concertazione in cui le Parti Sociali contribuiscono ad ancorare l’Italia all’Europa, spingono con forza per la modernizzazione del paese, suppliscono al crollo di una classe politica spazzata via da Mani Pulite, e assumono un ruolo di garanzia verso gli interessi generali di lavoro ed impresa, se pur a rischio di degenerazioni neo corporative, si procede verso un progressivo dissolvimento che raggiunge in questi giorni l’evanescenza con l’invocare, e supinamente demandare, interventi a Governo e Parlamento sui temi degli assetti contrattuali e della rappresentanza.
Non è soltanto abdicare alle proprie responsabilità: un suicidio collettivo di ruolo delle Parti Sociali. Quando la politica, precipitata nel vuoto, riprende e riempie i suoi spazi, prima col centro destra, poi con il centro sinistra, si muove con revanscismo e arroganza, indicatori di mancanza di cultura del bene comune, quasi a far scontare le colpe di una pretesa invasione di campo.
Le rappresentanze delle imprese e del lavoro si arroccano nella difesa degli interessi particolari, nel lobbismo, nella difesa incondizionata dell’esistente, nel protagonismo e particolarismo come funzioni giustificatrici della propria esistenza.
Per il sistema di rappresentanza, all’irrisolto dilemma di attuazione o di modifica della Costituzione si è aggiunta una crescita ipertrofica, un irrigidimento di strutture burocratiche imponenti e l’invecchiamento e l’obsolescenza dei rappresentanti, professionisti senza professionalità. Devono riscoprire che la rappresentanza è basata sui rappresentati, ed è una funzione professionale, prima che politica, e non professionistica.
Passare da una tutela generalista, che vuole coprire ogni interesse, anche particolare, ad una tutela generale, rivolta a presidiare gli interessi fondamentali dell’impresa e del lavoro, come la nascita e la crescita di impresa, la creazione di valore, lo sviluppo di competenze, la capacità di dare risposte innovative ai vecchi e nuovi bisogni in modo coerente alle diversità del mondo, è ciò di cui i rappresentanti di impresa e lavoro dovrebbero occuparsi. Preoccuparsi poi di dare strumenti cognitivi e creativi a chi lavora: il lavoro non è una concessione o un dono, ma una conquista, conquista di un elemento fondante dell’identità della persona nella collettività di riferimento e nella società, di un ruolo di attore nella generazione e moltiplicazione di risorse, e non di mero consumatore.
E’ nell’incertezza e nella complessità indotte dai cambiamenti degli scenari competitivi, che sempre più il lavoro dovrà esprimere, oltre che competenze, capacità interpretative e creative, fondate su forti collegamenti con la cultura di riferimento, capaci di aggiungere ai valori materiali di beni e di servizi offerti, valori immateriali capaci di creare suggestioni, stimoli, curiosità, desideri di appagamento.
Questo dovrebbe essere il primo e fondamentale obiettivo di organizzazioni sindacali: promuovere il lavoro mediante la promozione – professionale e culturale- dei lavoratori occupati e di coloro che ambiscono a “trovare” lavoro, in particolare i giovani e di coloro che, per obsolescenza, il lavoro hanno perso. Riconoscere poi che la creazione e lo sviluppo del lavoro è strettamente legato alla creazione e allo sviluppo di impresa; che le persone che lavorano e le imprese costituiscono comunità di interessi e di destino. L’impresa, anche quella a rete e diffusa, con i suoi legami costituiti dai fini comuni sostituisce i legami di convivenza, vicinanza, solidarietà peculiari dei mitici addensamenti di lavoratori nella fabbrica integrata, paradigma delle organizzazioni del lavoro taylorista-fordista.
Perché ciò possa avvenire è necessario un altro salto culturale, questa volta degli imprenditori. L’imprenditore tende a confondere se stesso con l’impresa, creatura sua. Cosi facendo ne limita il potenziale di sviluppo, le caratteristiche comunitarie, il potenziale identitario.
L’imprenditore è spesso il primo ostacolo al conformarsi della impresa come comunità di interessi e di destino. E in questo non è aiutato dalle organizzazioni di rappresentanza, configurate culturalmente come organizzazioni di imprenditori più che come organizzazioni di imprese. Infine il tema degli assetti contrattuali delinea un quadro di arretratezza culturale, di vischiosità e di resistenza al cambiamento che supera l’immaginazione.
Una ricerca recente della CISL evidenzia come nel periodo della crisi, negli anni dal 2008 al 2014, i contratti collettivi di settore sono passati da 398 – numero già di per sé incredibile – a 707!!! Una pulsione di specificità che, più che neocorporativa, appare autodissolutoria.
Non è più rinviabile una riforma che porti, come in tutta l’Europa, ad un unico livello di contrattazione: contratti aziendali, o contratti nazionali per macrosettori per chi non è in grado di sviluppare una propria contrattazione aziendale, che coprano i temi retributivi e normativi. Le Confederazioni del Lavoro e dell’Impresa dovrebbero infine riprendere con forza responsabilità di iniziativa e di proposta su tutti i temi che toccano i presupposti e le condizioni competitive dei sistemi produttivi, nazionali e locali.
Riguardano principalmente la crescita delle conoscenze, delle competenze, della creatività, dell’innovazione, cui devono rivolgersi i sistemi educativi e formativi, di ricerca e sviluppo, a livello nazionale e locale, per recuperare distanze preoccupanti nei confronti dei nostri competitori, anche ultimi entrati nello scenario competitivo.
Sarebbe infine opportuno che le Confederazioni, del Lavoro e dell’Impresa, risolvessero i conflitti di interesse di cui sono portatrici e che costituiscono pesanti ostacoli alla modernizzazione del Paese, e alla sua crescita civile ed economica. Le Confederazioni del Lavoro devono scegliere, quando si affrontano temi come la riforma della Scuola, dell’Università, della Pubblica Amministrazione, tra il mantenimento degli assetti esistenti a tutela degli addetti e degli interessi e diritti acquisiti – per non dire privilegi – e la capacità di dare risposte adeguate alle esigenze dei cittadini e degli utilizzatori.
La Confederazione di Impresa dovrebbe infine favorire l’apertura al mercato dei settori protetti o non esposti alla concorrenza, contrastando privatizzazioni di rendite monopolistiche e promuovendo liberalizzazioni, anche a scapito degli interessi di potenti associati.
Carlo Callieri
(*Testo per la Fondazione Nenni, pubblicato col consenso dell’Autore e dell’Editore)