Cresce il numero degli economisti (non liberisti) che chiedono politiche industriali per la crescita e l’innovazione del Paese. Qualche mattina fa a Firenze, in un workshop organizzato dal Prof. Riccardo Cappellin su “Crescita, investimenti e territorio”, molti relatori (a partire da Patrizio Bianchi) hanno descritto la situazione fortemente polarizzata delle industrie italiane tra quelle che esportano prodotti ad alto valore aggiunto, quelle in deficit di innovazione e di mercato, quelle interagenti con il territorio in cui sono insediate e quelle in deficit di capitale umano. Ci si è poi misurati sulle ricette con cui riavviare un circolo virtuoso di investimenti, innovazione e qualità del lavoro.
A me è parso utile ricordare che la politica industriale più volte invocata (quella top down, per settori, con linee guida e finanziamenti pubblici) non solo non esiste, ma forse non è mai esistita, almeno in Italia. Gli ultimi esempi evocabili sono quei “Piano della chimica” e “Piano della siderurgia” degli anni ’80. Ma anche allora si trattava più di disegni di razionalizzazione dell’esistente che non di indirizzi di innovazione e diversificazione. Basti guardare alla situazione odierna della chimica e della siderurgia italiane per confermarne la scarsa efficacia.
Difficile immaginare che, archiviata anche culturalmente, la funzione programmatica dello Stato, possa intervenire l’Unione Europea a svolgere un ruolo di supplenza in questo campo. L’Europa guarda agli equilibri finanziari degli Stati e non al loro grado di competitività. La politica industriale (di settore o di fattore) è ormai una categoria dello spirito: molto evocata ma senza alcun “ubi consistam”.
Se non c’è una possibile politica dall’alto che indirizzi e investa per l’innovazione, allora bisogna provarci dal basso: dai territori e dalle Regioni. Senza confondere anche in questo caso ruoli e soggetti. La proposta della Cgil è di partire dalle tante arretratezze del Paese (e anche da qualche potenzialità non utilizzata) e provare a definire progetti di che vadano a colmare i ritardi e le divisioni territoriali. Ciò è necessario sia nel campo della manutenzione di città e territorio, sia in quello del welfare, sia in quello delle tecnologie di informazione e comunicazione. Anche in questo caso, non serve elargire risorse alle imprese, senza averle prima coinvolte in progetti di sistema. È più utile creare nuovi mercati che sfidino le imprese all’innovazione e agli in vestimenti che defiscalizzarne i costi “a prescindere”.
Non è un’utopia sindacale. Non partiamo da zero, per fortuna. È già significativo il numero di accordi regionali e territoriali firmati tra governi, imprese e sindacati, che vanno in questa direzione. Ultimo in ordine di tempo e primo per completezza il “Patto per il lavoro” dell’Emilia Romagna che coniuga insieme obiettivi di crescita del valore aggiunto della Regione, dimezzamento della disoccupazione e significative risorse pubbliche per l’innovazione.