Uno sciopero pienamente riuscito, quello andato in scena venerdì scorso con manifestazione in piazza SS. Apostoli a Roma dei lavoratori del gruppo Eni e Saipem, con un tasso di adesione che ha superato il 90% del personale in servizio quel giorno, al netto di quelli comandati per la sicurezza degli impianti. E questo nonostante il tentativo dell’azienda di boicottare la giornata di mobilitazione andando negli stabilimenti e nelle fabbriche a convincere i lavoratori delle loro ragioni.
E questo per diverse ragioni: la vendita della chimica italiana significa la vendita di pezzo fondamentale della storia industriale di questo paese, ma significa anche un progressivo disimpegno di Eni in Italia e una sua graduale trasformazione in una società di compravendita di petrolio a costo della perdita delle basi industriali italiane con la conseguenza di un ridimensionamento generale del Paese dal punto di vista industriale. Ma questa operazione si tradurrebbe anche in una desertificazione di quei territori, che hanno plasmato la propria infrastrutturazione sulla presenza di Eni e hanno fatto di quella attività la propria ragione di vita economica; la Sicilia, con preoccupante crescita delle tensioni sociali e i blocchi degli ultimi mesi a Gela e Priolo, oppure la Puglia, che, dopo l’Ilva, non merita anche lo smantellamento degli impianti Eni, fino al quadrilatero padano, senza dimenticare la Sardegna, che dopo i casi Alcoa e Sulcis, sotto l’aspetto dell’occupazione non è certo messa bene.
È per questo che in oltre 3000 sono giunti a Roma quel venerdì da tutte le parti d’Italia per dire ‘NO’ all’abbandono di Eni dell’Italia, ‘NO’ alla svendita di Versalis, per dire ‘NO’ all’abbandono dei lavoratori di Saipem al loro destino.
Anche perché l’operazione della vendita del 70% di Versalis non convince per diversi motivi. Innanzitutto appare quanto mai curioso l’atteggiamento dell’azienda, che solo fino a un anno fa intendeva dismettere la raffinazione e che ora, con un prezzo del barile al minimo storico e quindi favorevole a quell’attività di commercializzazione del petrolio, fa marcia indietro e opta invece per la vendita della chimica, proprio in un periodo in cui, per stessa ammissione di Descalzi, per la prima volta si torna ad avere profitti.
In secondo luogo non convince il fondo SK Capital, un fondo che desta enormi preoccupazioni sotto l’aspetto del mantenimento del perimetro industriale e quello dei livelli occupazionali, perché non sufficientemente solido, che non pare assolutamente avere le dimensioni e le caratteristiche per fare fronte agli investimenti previsti dal piano industriale, con la concreta possibilità di far venire meno tutto quel lavoro di riconversione in ‘chimica verde’ fatto finora e al centro di importanti protocolli industriali sottoscritti al il Ministero dello Sviluppo economico. A partire da Porto Marghera, Porto Torres, Gela. Perché ad oggi stati convertii al verde il 55% dei prodotti delle produzioni di Versalis, ma per completare il progetto servono almeno altri 1,2 miliardi.
Un fondo troppo giovane, nato nel 2009, con appena 18 dipendenti, di cui andrebbe anche verificata l’ubicazione fiscale, per non rischiare di ritrovarci Versalis trasferita in chissà quale paradiso fiscale…
Oggi Versalis conta 4 mila dipendenti diretti, 2 mila sono quelli dell’indotto. Ha quattro centri di ricerca e 250 brevetti. È l’erede della Montecatini, di Montedison, della Enichem, della storia della chimica italiana, del premio Nobel a Giulio Natta per l’invenzione del Moplen, che rivoluzionò l’industria chimica. È anche il futuro di tutti quei ricercatori e cervelli che non vorremmo pentirci di avere dovuto lasciare andare all’estero.
Per questi motivi la vendita della maggioranza di Versalis da parte di Eni assume un valore del tutto diverso: la mobilitazione sindacale si fa portatrice degli interessi non solo dei lavoratori di Eni e Versalis, ma dell’Italia tutta, perché riteniamo che questo paese possa uscire dalla crisi solo se salverà la sua industria, la sua manifattura, che è ancora la seconda d’Europa, la sua capacità di fare produzione, di trasformare i prodotti, di fare chimica, raffinazione, costruzione di impianti; l’unica speranza per il futuro dell’Italia e per i nostri figli.
Ed è per questo che chiediamo un intervento del Governo, un incontro al premier Matteo Renzi e alla ministra dello Sviluppo Federica Guidi e indirizzato una lettera al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Perché il Governo ha il dovere di dare indirizzi di politica industriale e non lasciare questo compito alla stessa Eni, ha il dovere di prendere una posizione e di non restare un osservatore neutro; obbligo che gli deriva non solo dalla sua autorevolezza politica, ma anche e soprattutto dal ruolo di azionista di riferimento che attualmente ricopre.
Soprattutto perché “C’era una volta la chimica italiana” è una frase che non vorremmo mai dovere essere costretti a consegnare alle generazioni future, volendo evitare, come sindacato, che gli ultimi capisaldi di questo settore strategico per il futuro industriale finisca nel cassetto dei ricordi.