Mi è capitata fra le mani, frugando tra vecchie carte, una pagina de “l’Unità” (il mio giornale per oltre 50 anni). Riporta una mia intervista a Bruno Trentin. Con il titolo “Un sindacato dei lavori, non più quello dei posti”. E l’occhiello avverte: “Dobbiamo ridefinire un patto fra vari settori del mondo della produzione e fra quelli delle diverse attività, pena, in caso contrario, l’esplosione della nostra crisi di rappresentanza”. La data riportata è quella del primo maggio 1984, l’anno (guarda una po’) della frattura sulla scala mobile. Quasi 30 anni fa.
Mi piacerebbe portare quel testo al tavolo delle delegazioni di Fiom, Fim, Uilm, intente a ricucire ferite che sembravano non rimarginabili. E a chi insiste nel richiedere impossibili “abiure” a questo o a quello dei tre sindacati, vorrei poter ricordare che i loro “antenati”, i Trentin, i Carniti, i Benvenuto, quando decisero di avviare il processo unitario, di bruciare i “vascelli” alle spalle, non chiesero al proprio interlocutore di cancellare le proprie certezze, i “patriottismi di organizzazione” allora ben più forti di oggi. Scommisero tutto sulla democrazia, sulla partecipazione, sui delegati. E su obiettivi non calati dall’alto. Seppero parlare non solo agli specializzati, a quella specie di “aristocrazia operaia” ma anche ai manovali di terza categoria. E costruirono una forza prorompente capace di suscitare rispetto e di ottenere risultati. E’ possibile ripercorrere quella strada? Non lo so. Certo per farlo occorre tener conto di quanto è avvenuto nell’apparato produttivo. C’è chi ha descritto i luoghi di lavoro contemporanei, anche metalmeccanici, come un panorama di tute diverse. Uno scenario dove si affollano spesso lavoratori con contratti diversi, tra appaltati, interinali, collaboratori, giovani entrati col jobs Act e con tutele non identiche a quelle dei compagni di lavoro più anziani. Un affollamento di donne e uomini ai quali bisogna saper parlare, anche discutendo del contratto come strumento capace davvero di unificare. E forse allora anche quella intervista di Trentin del 1984 può servire. Più che le abiure.