A fine mese Vincenzo Boccia presenterà al Consiglio generale di Confindustria il suo programma, le cose che pensa di realizzare nel suo mandato quadriennale e la squadra che lo affiancherà in questo compito. Un appuntamento importante perché intanto si stanno spargendo i veleni del dopo voto del Consiglio generale e qualcuno pensa perfino di poter ribaltare il responso in sede assembleare, dove il meccanismo di voto è diverso di quello dell’indicazione del nuovo presidente. E sarà allora interessante, più che verificare se il neo presidente ha allargato l’area del consenso, guardare quali sono le sue priorità, quali i punti sui quali pensa di poter concentrare la sua attenzione.
Tutti danno per scontato che la prima mossa sarà un accordo con i sindacati sul sistema di contrattazione. Lo pensano forse con un eccesso di ottimismo (o di superficialità). Perché quell’accordo è molto lontano e sarà difficile arrivarci. E’ vero infatti che le confederazioni sindacali sono intenzionate a chiudere la partita, forse in fretta, tanto è vero che a gennaio hanno messo a punto un documento che indicava le linee di fondo secondo le quali muoversi per arrivare all’accordo. Ossia, la disponibilità dei sindacati a trattare c’è, al contrario di ciò che accadde quando Giorgio Squinzi li invitò formalmente a discutere e i segretari generali di Cgil e Uil nemmeno si presentarono all’appuntamento concordato appena due giorni prima. Ma questa disponibilità non significa nulla, perché una cosa è iniziare la trattativa, un’altra arrivare all’intesa.
E quel dialogo, che certamente si avvierà, parte già su basi sbagliate. Il documento di Cgil, Cisl e Uil infatti è stato bocciato senza possibilità di appello dal Consiglio generale di Confindustria, lo stesso che ha indicato Boccia alla presidenza: ossia, gli elettori di Boccia non credono che quel documento possa essere la base del nuovo accordo. In verità, si sa come cominciano le trattative, mai come finiscono. Il dialogo tra industriali e sindacalisti può subito mettere da parte quel documento e iniziare un discorso diverso. Ma la situazione è più difficile perché gli industriali vogliono arrivare a un assetto della contrattazione tutto differente da quello attuale, mentre i sindacati pensano a una continuità, condita con qualche novità, ma nella sostanza ancorata ai vecchi parametri. E per loro cambiare totalmente schema, ribaltare la loro posizione può non essere affatto facile, considerando che tutto il mondo del lavoro ha approvato quel documento in una serie infinita di assemblee, riunioni, attivi e quanti altri tipi di riunioni di lavoratori si possano escogitare.
Ma gli industriali vogliono proprio cambiare tutto. Pensano infatti che le trasformazioni che sono avvenute nell’economia in questi anni impediscano di mantenere relazioni industriali come nei tempi passati. Non c’è più nulla da dividere, c’è al contrario da creare e a questo pensano che debba servire la contrattazione, a creare ricchezza, che verrebbe poi divisa, ma solo dopo averla creata. E siccome la ricchezza le relazioni industriali la possono creare solo cambiando l’organizzazione del lavoro, i turni, aumentando la partecipazione attiva dei lavoratori, con una classificazione dei lavoratori tutta differente, in modo da cambiare la produzione, è evidente che tutto ciò può avvenire solo in azienda. Insomma, gli industriali credono che ormai alle imprese servano degli abiti su misura, non più quelle taglie uniche che poteva dare il contratto nazionale di lavoro. Questo nella loro ottica non sparirebbe, assolutamente, ma certamente perderebbe il carattere che ha avuto per molti anni. E, conseguentemente con il loro ragionamento, pensano che la distribuzione della ricchezza creata, oltre che in azienda, non potrebbe che avvenire a posteriori, una volta che si sia in presenza di risultati tangibili, misurabili, nulla di presunto, di sperato, come si è sempre fatto.
Una rivoluzione totale, che i sindacati non accettano, ma con la quale dovranno scontrarsi. A meno che non cambino opinione gli imprenditori. Ma anche questa possibilità sembra remota. La filosofia della Federmeccanica, che è costruita proprio su questa teoria, sembra assolutamente vincente in Confindustria. Boccia l’ha fatta sua, ma anche Vacchi era d’accordo su questa linea: tutti e due hanno indicato appunto la strategia della federazione degli industriali metalmeccanici come l’unica via da seguire. Potrebbe venire qualche sorpresa dal tavolo dove si sta trattando il rinnovo (o rinnovamento come preferiscono dire gli industriali) del contratto dei meccanici? Sembra proprio di no, la linea della federazione imprenditoriale è molto ferma, tutti affermano che o si cambiano le regole o si può rinunciare al rinnovo. Perché l’alternativa è già molto chiara, non esistono solo le relazioni industriali, ci sono le relazioni dirette, quelle personali, che intrigano gli imprenditori molto più del vecchio dialogo con i sindacati. Noi, affermano, siamo pronti al dialogo con i sindacati come abbiamo sempre fatto, ma le relazioni dirette, quelle che vedono protagonisti le imprese e, direttamente, i lavoratori, sono altrettanto importanti e possono crescere.
E’ la disintermediazione, parola magica che sembra faccia sempre più nuovi adepti, ossia il fare a meno del sindacato. E’ già una realtà in politica, tanto che i partiti sono spariti,. Il rapporto è diretto tra il leader e gli elettori o cittadini, a seconda dei momenti. In verità, i risultati di questa disintermediazione in politica non sono esaltanti, tutt’altro. E questo dovrebbe far considerare agli imprenditori anche i problemi che la scomparsa, o anche solo l’indebolimento dei sindacati, comporterebbe. Perché i sindacati non sono solo quelli che mettono i bastoni tra le ruote delle imprese, che cercano facili privilegi, che rappresentano un freno per l’innovazione. Sono anche per prima cosa i rappresentanti, liberamente scelti, dei lavoratori, che tutte le imprese considerano il loro bene primario. Sono quelli che assicurano la coesione sociale, in fabbrica prima che nel paese, che consentono di realizzare cose nuove che i lavoratori magari, per loro incapacità o incoltura, non accetterebbero, ma che, spinti appunto dai loro rappresentanti, finiscono per fare proprie. I partiti garantivano in politica la canalizzazione del consenso, adesso non ci sono più e quel consenso è sparito, basta vedere le percentuali dei votanti alle elezioni e il numero degli incerti alla vigilia di voti anche molto importanti. Non ci sono più i partiti, la politica si è dissolta. E se succedesse qualcosa del genere nelle fabbriche? In verità l’esigenza dei lavoratori di farsi rappresentare non sparirebbe solo perché i sindacati cesserebbero d’essere quelli di una volta: ci sarebbero sempre rappresentanze operaie, magari di fabbrica, o di piccoli gruppi, ma la loro politica sarebbe ben diversa da quella che le grandi confederazioni, proprio perché raggruppano lavoratori di tutte le categorie e tutte le latitudini, assicurano adesso, pur con tutti i loro limiti e le loro lentezze. Forse alla fine saranno proprio questi i ragionamenti che prevarranno e che indicheranno la via da seguire.
Massimo Mascini