Il Primo di maggio è tornata all’ordine del giorno la questione del lavoro nero e la perversione del caporalato che lo organizza soprattutto tra gli immigrati nelle campagne. Ciò non solo da parte dei sindacalisti, ma pure da importanti autorità politiche: due Ministri quali Martina (Politiche agricole) e Orlando (Giustizia) con un articolo su La Repubblica, la Presidente della Camera Boldrini in Puglia a Mesagne ad una iniziativa della Flai-Cgil. Il 18 aprile c’era stato lo sciopero dei braccianti immigrati a Latina.
Quello del caporalato è problema tutt’altro che recente. In una relazione a un convegno del Cnel del 7 luglio 2009 è anche detto: “Il caporalato è organizzato anche tra gli stessi immigrati. Le comunità italiane ci marciano anche per un giro perverso secondo il quale: – l’immigrato clandestino vive in un tugurio; – il caporale organizza e garantisce; – italiani che non lavorano in agricoltura comprano giornate in modo da ottenere indennità di disoccupazione e coperture previdenziali. Per le aziende guadagno doppio e per l’immigrato doppio scorno: non solo rinuncia a dei diritti, ma è un italiano a goderne.”
In questi interventi si è posta l’attenzione prevalentemente sulla necessità della repressione anche applicando le norme penali previste da norme di legge approvate negli ultimi due anni. E si punta sulla “Rete del lavoro agricolo di qualità” attivata con il decreto 91/2014 resa operativa dallo scorso settembre.
Le misure di repressione pure indispensabili rischiano di dare pochi risultati. Il motivo è che i caporali fanno un lavoro “necessario” che non fa nessun altro: organizzano l’incontro domanda-offerta e il trasporto sul luogo di lavoro.
Bisogna sostituirli in queste funzioni con strutture promosse dal potere pubblico insieme alle organizzazioni sindacali dai lavoratori e delle imprese anche con l’impegno delle varie forme di Enti bilaterali che diversamente non se ne capisce l’utilità. Si ha notizia di tentativi in corso, ma circondati da sospetto e riserve. Come stanno funzionando?
Nelle zone interessare va affrontato il problema del ricovero per i lavoratori che seguitano a vivere in condizioni scandalose. Quando mia madre faceva la mondina partiva con un viaggio organizzato. Sapeva dove andare e il datore di lavoro organizzava il luogo per vivere e riposarsi nelle ore di non lavoro. E organizzava una mensa (sempre riso, ma c’era). Questa componente era retribuzione in natura. La retribuzione in natura è tutt’ora praticata per molti salariati fissi che curano il bestiame e vivono sul fondo nella casa messa a disposizione dall’azienda.
Mi parrebbe ragionevole praticare intese che prevedessero una parte della retribuzione destinata a finanziare soluzioni collettive di ricovero decente per i lavoratori immigrati nelle zone interessate. Ovviamente molto difficili da attuarsi avendo in premessa che si paghi la giusta retribuzione contrattuale parte in denaro e parte tramite il ricovero organizzato. Improbabile che tali soluzioni nascano dal basso unicamente dalla relazione tra le parti. Un ruolo promotore e organizzatore importante lo possono svolgere gli enti locali e le strutture dello Stato che devono decidere di mettere mano al problema piuttosto che lasciar correre.
Altra via da battere è quella che passa da un ammodernamento anche tecnologico del sistema come già si fa nelle zone più sviluppate. Imprese che forniscono agli agricoltori il lavoro delle grandi macchine, compresa la raccolta meccanica del pomodoro. Chi lavora in queste imprese sta molto meglio dei braccianti a giornata anche regolari.
Tali evoluzioni renderanno “meno necessario” il lavoro nero; senza illudersi che dalla sera alla mattina si passi alla regolarità partendo da un lavoro nero che più nero non si può.
Un altro filone è quello relativo alla remunerazione dei prodotti agli agricoltori. Certi prezzi che corrono non possono che spingerli a scegliere il lavoro nero, ma l’inerzia su tutti questi problemi non può che condannarci ad una arretratezza insuperabile.